“UN MILIONE DI GRANELLI DI SABBIA” DI ANDREA DEAGLIO

Se le testimonianze delle dolorose devastazioni causate da guerre, genocidi e catastrofi naturali sono numerose, meno spazio viene invece dedicato alle azioni che documentano la vitale spinta umana verso la rinascita e la ricostruzione del sé.

Un milione di granelli di sabbia, film documentario di Andrea Deaglio, cambia prospettiva e scava nel profondo, dove la ricostruzione è un percorso psicoterapeutico intrapreso dalle vittime di traumi di guerra. Il regista si concentra su bambini in estrema difficoltà sociale e in diversi contesti, dal genocidio Yazidi alla guerra in Ucraina, passando per un terremoto in Cina. Il filo rosso che unisce queste tragedie umanitarie è la voce calma e controllata della psicoterapeuta Eva Pattis Zoja che, ideando il metodo del Sandwork Espressivo, lavora per lasciar emergere emozioni inespresse e superare vissuti traumatici. La regia di Deaglio, attraverso le parole di Pattis Zoja, riesce nell’intento di raccontare per immagini un dolore “inimmaginabile”: i primi piani emotivi e i dettagli delle mani nella sabbia sono accompagnati da effetti sonori di tensione che, alternati a momenti di un silenzio assordante, conferiscono una certa gravitas alla narrazione.

Durante le sessioni di psicoterapia, i bambini maneggiano miniature colorate nella sabbia senza dover ricorrere a una verbalizzazione che risulterebbe estremamente difficile per via del trauma subito. Piuttosto, si lascia che sia la sabbia a parlare. 

Il racconto è intervallato da fotografie su fondo bianco accostate a descrizioni-valutazioni psicoterapeutiche che documentano le sedute. Immagini che ricordano le statuine a cui si è affidato Rithy Panh in L’immagine mancante (L’image manquante) per ricostruire la sua memoria familiare durante il genocidio cambogiano. Similmente al lavoro di Pahn, che è riuscito a conferire senso e plasmare la narrazione di un dolore altrimenti indicibile, anche Pattis Zoja ricorre a una modalità di rappresentazione figurativa del passato e del rimosso.

L’ibridazione di diversi materiali documentali – riprese dal vero, video di repertorio, filmati e foto di famiglia – crea un intreccio di piani narrativi in cui Storia e vissuto personale dialogano e sfumano i loro confini. I racconti dolorosi dei pazienti straripano nei ricordi familiari della psicoterapeuta, che si confronta con un trauma che attraversa le generazioni e, se inespresso, diventa pericolosamente contagioso. Da questa frattura interiore, prende vita la sua ossessione di rimediare e comprendere ciò che in realtà è dentro di lei. Il documentario termina infatti guardando verso l’interiorità di Pattis Zoja: è lei stessa ora a entrare in contatto con la sabbia.

«Nessun trauma è paragonabile a un altro e nessuno può affrontare il dolore da solo»: in questa frase di Eva Pattis Zoja è racchiusa la sua personale missione di cura, ma anche l’anima del documentario che testimonia l’importanza della terapia, anche e soprattutto in contesti d’emergenza.

Giorgia Andrea Bergamasco

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