“QUIR” DI NICOLA BELLUCCI

Quir si apre sulle tombe di un cimitero, un po’ come Volver. Ma, a differenza del film di Almodovar, qui siamo di fronte a una tragica storia vera di cui leggiamo i nomi: Giorgio Agatino Giammona e Antonio Galatola, brutalmente assassinati a Giarre il 31 ottobre 1980, solo perché erano due “ziti” (fidanzati).

Il documentario di Nicola Bellucci inizia dalla morte e alla morte ritorna in chiusura, ma lo fa solo dopo aver riempito il vuoto generato dal delitto omofobo. Lo fa dopo aver conosciuto la nascita e la vita di Arcigay, fondata, tra gli altri, da Massimo Milani e Gino Campanella sull’onda emotiva generata dalla strage e con il bisogno di gridare al mondo l’esistenza e le sofferenze di intere vite. Questi decenni di storia del movimento LGBTQIA+ in Italia non vengono descritti nel film, ma sono racchiusi in quelle due lapidi e nei corpi della coppia vivente di Massimo e Gino, che da cinquant’anni gestiscono un vivace e coloratissimo negozietto di pelletteria, nel quartiere di Ballarò.

Un negozietto che negli anni è diventato una casa, un rifugio e una famiglia attorno a cui ruotano molte altre storie, fatte di ricordi, di ferite, di sogni: conosciamo Charly Abbadessa, ex protagonista della scena gay nella golden age di Hollywood; Vivian Bellina, ragazza trans trasferitasi accanto a loro; Ernesto Tomasini, artista di teatro che ha interrotto la sua carriera per prendersi cura della madre. Sono tanti piccoli satelliti nel pianeta-Quir, di cui Massimo e Gino sono le Mother. Proprio come nelle houses newyorchesi, la coppia è un pilastro di sostegno per tutte le persone della comunità, a cui ha dedicato una vita intera.

Bellucci è abile nel non farci sentire la presenza della macchina da presa o della tecnica, permettendo allo spettatore di immergersi completamente nelle placide giornate dei personaggi (nessuno di loro è una semplice persona) fatte di chiacchiere, di racconti in dialetto palermitano o in inglese, di amore, di lotta, di taglia e cuci, tra borse, tacchi e piume di struzzo. Con i loro corpi, già per il solo fatto di esistere ed essere-nel-mondo, sono  manifesti viventi di una lotta che ha fatto progredire enormemente le condizioni della comunità, ma che deve continuare a farsi sentire con urgenza.

Così Quir è un affresco dalla forza centrifuga, che esonda le pareti del negozio e i corpi dei protagonisti, dipingendo il ritratto di una città intera e, più in generale, la realtà del Paese. L’amore di Massimo e Gino è una forma di militanza onnicomprensiva, mai retorica, perché alla mera ideologia politica ha sempre anteposto il diritto alla vita. Sono entrambi un’istituzione che festeggia la vita anche nella morte e proprio alla morte fa ritorno, su quelle due tombe così tanto importanti per la comunità, un memento di quanto sia necessario rigenerarsi da ogni forma di violenza. Perché Quir non è solo un bel gioco di parole tra “queer” e “cuir” (“cuoio”, come la pelle che abitano i protagonisti): è “la fatica di rientrare nella norma e la gioia di non riuscirci”.

Ludovico Franco

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