La visione del film turba e scuote; questa è l’unica certezza che ci concede l’opera seconda di Lucille Hadzihalilovic, regista francese timida d’indole ma dotata di una voce spiazzante e ardita, la quale ci presenta un film duro e coinvolgente, a dieci anni da Innocence, il suo lungometraggio d’esordio.
Le immagini traumatizzano, la trama spiazza. Il film si muove tra terra, mare e corpi nudi, in uno scenario profondamente drammatico. Siamo trasportati in un universo dentro al quale un gruppo di donne convive con i propri bambini – esclusivamente maschi – costretti a periodiche visite in ospedale, unico edificio presente sull’isola oltre alle abitazioni dove vivono le madri con i figli.
Le immagini sono forti, fin troppo, al punto da risultare esagerate. Sorge spontaneo chiedersi il perché di una narrazione visiva così eccessiva. Da pugno nello stomaco. Perché mostrare feti di bambini rinchiusi in vitro o il filmato di un parto cesareo? Niente di più naturale per Lucille, grande appassionata del genere horror e dei film di Dario Argento. La regista, infatti, intende dar voce alle angosce dei bambini, ai quali “il mondo degli adulti appare misterioso” e quindi minaccioso. Lucille inserisce anche la sua esperienza personale – il trauma provocato da un’operazione di appendicite subita a 17 anni, quando il suo corpo è toccato per la prima volta dagli adulti e inoltre la sua angoscia per la gravidanza – nell’elaborazione di questa sceneggiatura.
Nonostante la pesantezza del tema e delle immagini, il film scorre in maniera molto fluida, non incontra intoppi narrativi, si districa bene in quella folle realtà di cui siamo spettatori, accompagnato da una colonna sonora inquietante ma in sintonia con l’eleganza delle immagini. Sembra una lucida messinscena delle paure della regista che non intende sconvolgere nessuno, ma solo mostrarci un po’ di sé.