Archivi categoria: Altri Festival

“JEANNE DU BARRY” DI MAïWENN

Inaugurata lunedì 17 luglio e in programma fino a fine mese, la Rassegna Cannes mon Amour propone un’ampia selezione di film dell’ultimo festival di Cannes in alcuni cinema di Roma, Milano, Torino, Bologna e Firenze. La prima serata è stata inaugurata dal film che ha aperto la 76° edizione del festival di Cannes, Jeanne du Barry, storia di una cortigiana di umili origini che si aggiudicò il titolo di ultima favorita del Re di Francia Luigi XV.

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“A WOUNDED FAWN” DI TREVIS STEVENS

Dopo una lunga carriera da produttore (Jodorowsky’s Dune, A Horrible Way To Die e tanti altri), con A Wounded Fawn, presentato nella sezione competitiva della ventiduesima edizione del TOHORROR Fantastic Film Fest, Travis Stevens firma la sua terza regia. L’arduo tentativo di amalgamare suggestioni disparate, se non addirittura contraddittorie, si concretizza in un’opera prodigiosamente equilibrata e omogenea, già vista, eppure originale. Un esemplare film di genere.

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 “LA OTRA FORMA” DI DIEGO FELIPE GUZMÁN

Da Orwell a Dick, da Brazil (Gilliam, 1985) a Flatlandia (Abbott, 1884), il lungometraggio d’esordio di Diego Felipe Guzmán, presentato in concorso alla ventiduesima edizione del ToHorror Film Fest, si rifà alle tradizioni fantascientifiche più tetre e alle tele cubiste più vivaci. Narrando di un futuro distopico ma non integralmente irrealistico, la stravagante animazione del film si rivela quale bizzarra ed eccentrica allegoria di un mondo odierno che saremo, forse, costretti ad abbandonare.

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“MAD HEIDI” DI JOHANNES HARTMANN E SANDRO KLOPFSTEIN

Nella 22° edizione del ToHorror Film Festival, si sta notando grande interesse per la rivisitazione dark di grandi favole per bambini: dalle fascinazioni per il Mago di Oz che ha contaminato la filmografia di David Lynch – cui saranno dedicati diversi omaggi nella giornata di domenica 23 ottobre – fino ai Freakshorts in cui si arriva addirittura a uccidere il povero Babbo Natale. Se la Disney ha voluto il più delle volte edulcorare i gotici racconti dei fratelli Grimm salvando le principesse dal triste destino a cui le favole letterarie le vincolavano, si sta riscoprendo in questi ultimi anni “il lato oscuro” delle storie per l’infanzia, da Hansel e Gretel – Cacciatori di streghe (Wirkola, 2012) a Cappuccetto Rosso Sangue (Hardwicke, 2011) fino alla prossima uscita di Winnie the Pooh: Blood and Honey (Waterfield, 2022). Insomma, al pubblico piace vedere i sogni trasformarsi in incubi, cercando il brivido da vivere insieme nella sala oscura cinematografica. E infatti, Mad Heidi è stato prodotto interamente tramite crowdfunding dagli appassionati del genere (o meglio, dei generi, tra favolistico, splatter ed exploitation) e ha raccolto oltre 2 milioni di franchi svizzeri per la sua realizzazione.


Il primo film della Swissploitation si presenta totalmente libero da qualsiasi controllo produttivo e creativo, portando sullo schermo con fierezza una rivisitazione gore dell’icona svizzera dell’innocenza. Presentato in anteprima nazionale in una sala da sold-out al ToHorror22, Mad Heidi sguazza nell’epica del trash in un amalgama citazionista e spudorato. Il film rinnega fin dalle prime inquadrature l’emblema di una Svizzera rurale, proponendo la rivisitazione distopica di un Paese ormai industrializzato che vive sotto l’assoluto controllo di un magnate del formaggio che combatte la concorrenza dei contrabbandieri-pastori ed elimina gli intolleranti al lattosio con torture alla fonduta. 

A fare scuola, ci sono i grandi classici da grindhouse: il film si destreggia tra omaggi a Rodriguez e addestramenti alla Kill Bill, ma non si lascia scappare neanche citazioni da Apocalypse Now, riferimenti a Il Gladiatore”, né i sottogeneri dedicati alla prigionia femminile e le gag metaculturali, in un minestrone riscaldato che esalta i propri cliché per restituire al pubblico un B-movie che ha il merito di  saper sfruttare le potenzialità del proprio territorio, convertendo l’exploitation americana in un prodotto made in Switzerland che ruoti attorno a riferimenti culturali autoctoni. Non ci sono più caprette che fanno ciao, né monti che sorridono felici: la Heidi di Johannes Hartmann e Sandro Klopfstein è una sanguinaria vichinga tirolese che cerca vendetta per le sofferenze dei suoi cari, una Inglourious Basterd simbolo della lotta antifascista. A metà strada tra il grottesco e la parodia, Heidi non risparmia colpi a nessuno; perché quando giunge l’ora della vendetta, in Svizzera – si sa – arriva puntuale.

Sara Longo

“RAQUEL 1:1” di MARIANA BASTOS

“Mite come la pecorella”, “La mitezza di Dio”, “Pecora di Dio”. Raquel (Valentina Herszage), protagonista dell’omonimo film di Mariana Bastos, presentato alla ventiduesima edizione del TOHORROR Fantastic Film Fest, non ha alcuna intenzione di corrispondere al significato del suo stesso nome. Al contrario, attraverso una rilettura al limite della blasfemia, intende sovvertire il ruolo di tutte le donne cristiane finendo per scontrarsi contro la bigotta cittadina dove si è trasferita da poco insieme al padre.

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“TINY CINEMA” DI TYLER CORNACK

Nella seconda giornata della ventiduesima edizione del TOHORROR Fantastic Film Fest, la sezione Freakshow, dedicata ad opere ad alto gradiente di eccentricità e splatter, viene inaugurata da Tiny Cinema.

Il lungometraggio a episodi di Tyler Cornack non risponde alle aspettative di un pubblico alla spasmodica ricerca di sorprese e stranezze di ogni tipo a causa di una consistenza narrativa traballante.

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“CELLULOID BORDELLO” DI JULIANA PICCILLO

Scintillante, misterioso, condannato eppure bramato dagli occhi di tutti: nulla si presta a essere indagato dal cinema come il mondo del sex work. Celluloid Bordello, il documentario di Juliana Piccillo, presentato durante la quinta edizione del Fish&Chips Film Festival, si propone di raccontare il complicato rapporto tra sex workers e grande schermo, presentandone gli stereotipi, i pregiudizi e i luoghi comuni attraverso il punto di vista di chi ha scelto di svolgere questa professione.

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“ONE FOR THE ROAD” DI NATTAWUT POONPIRIYA

Dopo Countdown (2012) e Bad Genius (2017), Nattawut Poonpiryia torna al Far East Film Festival con One for the Road, un atipico buddy movie che si muove, attraverso innumerevoli flashback e flashforward, in diversi tempi e diversi spazi con la stessa facilità con la quale i protagonisti, Boss (Thanapob Leeratanakachorn) e Aood (Nattarat Nopparatayapon), si spostano tra Bangkok e New York.

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“WHITE BUILDING”, DI KAVICH NEANG

La vecchia Phnom Penh sta sparendo. Gli occhi sperduti e incerti di Samnang (Piseth Chhun) contemplano in tempo reale la demolizione della città che conosce e abita, corrosa dalle forze della gentrificazione. Come nella Fenyang di Jia Zhangke, le trasformazioni in atto sono profonde al punto da riscrivere la storia stessa. Sul passato, obliterato, si sovraimprime il futuro. Si attacca lo spazio per plasmare – violentandolo – il tempo. «Old buildings are disappearing, taking swathes of our past with them, while condos, malls, and modern air-conditioned stores pop up everywhere. But what has changed most […] is the rhythm of the city»1: così Kavich Neang sintetizza una mutazione che riguarda non solo il tempo storico, culturale, ma anche quello vitale, performativo, della sua città. E, per sineddoche, della sua società. A una forsennata riscrittura architettonica del mondo votata alla cancellazione, White Building oppone il tempo di un respiro profondo, di un requiem.

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“HOW TO SAVE A DEAD FRIEND” DI MARUSYA SYROECHKOVSKAYA

How to Save a Dead Friend, (come) salvare un amico morto: questa la volontà testamentaria del commovente lavoro autobiografico di Marusya Syroechkovskaya (in concorso feature film al Visions du Réel), cruda documentazione di quindici anni di vita nella Russia a cavallo degli anni dieci del 2000. Un paese distruttivo, antidemocratico, che si regge su una costituzione votata, nel 1993, dal 30% della popolazione e dove la depressione giovanile è una piaga sociale dilagante. Un film che innesca riflessioni profonde sul senso esistenziale del cinema e sul legame carnale che i film (come questo) interessati alla realtà, sono in grado d’intessere con la vita. Un film che intaglia nella memoria un ricordo indelebile, segna un prima e un dopo, sposta le certezze. La visione di How to Save a Dead Friend è lacerante ma non mortifica: accende al contrario la felice consapevolezza che il cinema è risorsa vitale e illuminante nell’esperienza umana su questa terra. Anche di fronte alla morte.

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“THE LOST DAUGHTER” DI MAGGIE GYLLENHAAL

La decisione di Leda (Olivia Colman) di trascorrere una vacanza in Grecia all’insegna dell’ozio viene insidiata da vicini chiassosi e sinistri che ne turbano la quiete e destano la sua curiosità, innescando una fatale dinamica di attrazione e repulsione. A catturare il suo sguardo è in particolare la giovane Nina (Dakota Johnson) il cui rapporto di complicità e conflitti con la figlia piccola ne fa presenza fantasmatica della sé del passato (Jessie Buckley) e della sua maternità dolorosa.

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“AS FAR AS I CAN WALK” DI STEFAN ARSENIJEVIĆ

Per inscenare la tragedia di Strahinja (Ibrahim Koma) e Ababuo (Nancy Mensah-Offei) – due migranti ghanesi condannati a errare nelle waste lands geografiche e burocratiche di un’inospitale Est Europa – Stefan Arsenijević ricalca e rimodella il poema epico-cavalleresco serbo Strahinja Banović. L’operazione persegue un (almeno) duplice scopo.

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“ÎNTREGALDE” DI RADU MUNTEAN

Dopo esser stato presentato nella sezione Quinzaine des Réalisateurs di Cannes e in vari festival internazionali nel corso del 2021, Întregalde di Radu Muntean inaugura il nuovo anno vincendo la 33esima edizione del Trieste Film Festival. Nonostante si muova su territori già battuti, in particolare dai suoi colleghi della “nuova onda rumena”, il film persuade lo spettatore a intraprendere un viaggio intorno al confine sottile che separa empatia e narcisismo, altruismo e ipocrisia.

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“UN AUTRE MONDE” DI STÉPHANE BRIZÉ

Presentato in concorso alla 78ª Mostra del cinema di Venezia e in anteprima nazionale ai Job Film Days di Torino, Un autre monde chiude la trilogia del lavoro di Stéphane Brizé. Se ne La loi du marché (2015) il regista francese affrontava la vicenda dal punto di vista dell’operaio e in En guerre (2018) raccontava le feroci lotte sindacali e le relative contraddizioni interne ai gruppi dei lavoratori, in quest’ultima fatica la cinepresa si sposta dal lato opposto della barricata: quello del dirigente aziendale.

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“9TO5: THE STORY OF A MOVEMENT” DI JULIA REICHERT E STEVEN BOGNAR

Dopo l’acclamato, e crudo, esordio con American Factory (2019), la Higher Ground Productions di Barack e Michelle Obama torna a occuparsi di un tema vicino al mondo del lavoro. Attuali più che mai in questi anni, e in questi giorni, i tema dell’occupazione femminile e delle pari opportunità vengono analizzati e raccontati dal punto di vista delle attiviste del Movimento 9to5, baluardo delle lotte sindacali dagli anni ’70 a oggi sul territorio statunitense.

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“LA CONQUISTA DE LAS RUINAS” DI EDUARDO GOMEZ

Nulla si crea, nulla si distrugge. Tutto si trasforma: le persone, gli ideali, le città. Il modo di concepire il peso della singola persona all’interno di una comunità, sempre più sospesa sul filo dell’ambiguità tra interessi, cause sociali e necessità di sopravvivere. Eduardo Gomez si muove liberamente lungo il ponte che collega l’anima rurale del Sudamerica e la sua sublimazione industriale: pietre, che forgiano l’asfalto e segnano la via per un nuovo mondo. Non per forza migliore.

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“SEARCHERS” DI PACHO VELEZ

Primo piano di Shaq Shaq, 24 anni. Nell’aria il frastuono inconfondibile del traffico newyorkese. Il ragazzo, con lo sguardo in macchina, scruta le profondità dell’obiettivo, borbotta qualche parola, ammicca nervosamente. D’un tratto, sulla sua immagine si sovraimprimono le linee dell’interfaccia di una dating app, e subito si ha la sensazione che lo schermo stia restituendo lo sguardo a Shaq Shaq. Il quale, ormai è chiaro, è intento a scorrere su Tinder i profili di alcune ragazze, alla ricerca di quella giusta per un incontro.

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“OSTROV-LOST ISLAND” DI SVETLANA RODINA e LAURENT STROOP

Film in concorso nella sezione Competition Internationale Longs Métrages al Festival Visions du Réel 2021, Ostrov-Lost Island di Svetlana Rodina e Laurent Stoop è uno spaccato sulla vita degli abitanti di un’isola persa nelle acque fangose del Mar Caspio e dimenticata dalla Russia a partire dalla fine dell’Unione Sovietica. L’isola sopravvive all’ombra di una nazione della quale continua inutilmente ad alimentare il culto: a essa la legano solo la nostalgia e i divieti, tanto che l’unica fonte di guadagno degli isolani, la pesca degli storioni e la produzione di caviale, è ora illegale e tenuta sotto stretto controllo dalle autorità russe. Il paesaggio di Ostrov, un tempo ricco e fiorente, è ora scarno e desolato. Non ci sono più le strade, non c’è più un ospedale: restano gli uomini, i bambini che giocano, la sabbia, le cavallette.

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“GUERRA E PACE” DI MASSIMO D’ANOLFI E MARTINA PARENTI

Qualcosa di magnetico emana dal cinema di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, una forza attrattiva difficilmente decifrabile che scorre da un film all’altro, facendo della loro opera un oggetto misterioso e singolare. Qualcosa che ha in parte a che fare con la sospensione, con un clima di attesa e tensione verso un futuro costantemente dilazionato: un respiro trattenuto in cui lo slancio umano si congela a contatto con l’istituzione. In questo stallo i registi milanesi trovano casa, e da qui partono per indagare le situazioni più disparate: il matrimonio come procedura e burocrazia (I promessi sposi, 2007), il viaggio come flusso placcato e abortito (Il castello, 2011), la sperimentazione bellica come preludio alla guerra (Materia oscura, 2013), le grandi opere in completamento perenne (L’infinita fabbrica del Duomo, 2015 e Blu, 2018). Un impasse perpetuo, cui contribuisce largamente il trattamento sonoro che attraverso i rumori d’ambiente e le musiche di Massimo Mariani dà consistenza al tempo, creando mondi ovattati e subacquei.

In Guerra e pace, il loro ultimo film (presentato prima a Venezia e al FilmMaker Festival e ora sbarcato al Visions du Réel), D’Anolfi e Parenti portano quest’analisi a un ulteriore livello di complessità e scelgono di lavorare sulla sospensione temporale per eccellenza, quella del cinema, interrogato proprio in quanto tramite fra passato e futuro, nel suo farsi memoria attiva che plasma il presente. La riflessione prende forma in quattro movimenti, dedicati ciascuno a un diverso tempo verbale e a una diversa tappa nella storia delle immagini di guerra: si va dal passato remoto della guerra in Libia, la prima filmata sistematicamente; al passato prossimo dell’esplosione delle immagini, di cui l’Unità di crisi della Farnesina (“finestra sul mondo”) è contenitore emblematico; al presente di chi, come gli alunni dell’Ecpad, apprende oggi a filmare la guerra; sino a un futuro ipotetico che immancabilmente si ripete ed è perciò rappresentato dalle immagini d’archivio (qui, quello della Croce Rossa Internazionale conservato presso la Cineteca di Losanna).

Si tratta dunque di un film-saggio (o “film-impalcatura”, come definito dai registi), che analizza le possibilità dell’immagine, la sua doppia e ambigua capacità di riflessione. Da un lato l’immagine come coltello, impugnata da chi filma contro chi è filmato, riflesso del suo tempo e delle sue ideologie. Dall’altro l’immagine come coscienza, supporto eloquente che a distanza di anni demanda a noi la riflessione, la decodifica dei rapporti di potere al suo interno. È proprio a partire dalla capacità dei posteri di decodificare le immagini che il lavoro d’archivio acquista valore e che lo stesso Guerra e pace assume intento militante: restituire dignità alle vittime di guerra, evidenziando l’urgenza di un’etica della visione, più che della rappresentazione. Uno scopo raggiunto non con un’analisi fredda e scientifica, ma attraverso la coesistenza d’inchiesta e poesia, in uno sguardo volutamente impuro che instaura con noi un dialogo diretto. Ne sono esempio le immagini improvvise e apparentemente incongrue che spiazzano lo spettatore, risvegliandone l’attenzione con il fascino del fuoriluogo e spingendolo a indagare la loro stratificazione (in questo caso, la macabra apparizione del busto di un manichino o i legionari in maschere anti-gas fra aiuole verdeggianti). Il personale irrompe nell’oggettivo e il reale si arricchisce di sfumature magiche: come ne L’infinita fabbrica del Duomo le statue paiono muoversi da sé, librandosi nell’aria per raggiungere Milano, anche qui nel finale le immagini prendono vita, proiettandosi autonomamente su cataste di pellicole. Sono le testimonianze delle vittime di guerra, che prendono parola e ci interpellano di rimando: cosa faremo, noi, di queste immagini?

Chiara Rosaia

PIETRO MARCELLO – MASTERCLASS a Visions du Réel

In occasione della sua 52° edizione, Visions du Réel – Festival Internazionale del Cinema di Nyon ha dedicato una retrospettiva al regista italiano Pietro Marcello, i cui pluripremiati film, tra cui La bocca del lupo (2009), Bella e perduta (2015) e Il passaggio della linea (2006) sono stati presentati nella sezione Atelier. Il cinema di Marcello è stato anche protagonista di una masterclass mediata da Rebecca De Pas e in collaborazione con HEAD – Ginevra. 

Durante la masterclass, Pietro Marcello ha parlato della sua carriera e della sua singolare visione di cinema, partendo dal racconto degli studi di pittura in Accademia e della sua esperienza al centro sociale napoletano DAMM, in cui fino al 2003 ha organizzato eventi cinematografici. L’esperienza sociale – fondamentale nella sua formazione di ‘artigiano’ – e la consapevolezza di “non essere così bravo” nella disciplina pittorica, hanno maturato nel regista il bisogno di stare tra le persone e di raccontare le loro vite e le loro storie attraverso il mezzo documentario. 

Parlando di La bocca del lupo (2009)il film che lo ha consacrato al pubblico internazionale, Pietro Marcello spiega come il suo lavoro parta dall’osservazione e da una costante ricerca dell’imprevisto. Il suo cinema, un ‘felice ripiego’ come lui stesso lo definisce, nasce sempre da un’inchiesta: “I miei film non si possono scrivere se non parti da un’inchiesta, al massimo posso avere un canovaccio. Per me è importante capire cosa vado a fare”. Il regista non crede nello sviluppo della scrittura attraverso il documentario, perché nel cinema esiste sempre una trasposizione filmica il cui progresso, spesso, finisce con l’infrangere le promesse poste dalla sceneggiatura. La scrittura per il cinema è un’opera incompleta perché durante le riprese muta e si evolve, fino a trasformare letteralmente il prodotto filmico; come dice lo stesso regista, “la scrittura di una scena termina nel momento esatto in cui finisci di filmarla” e per questa ragione è essenziale avere metodo, ovvero imparare a gestire l’imprevisto, anche (e soprattutto) attraverso il montaggio in macchina. 

Legato alla pittura, alla letteratura, alla piccola e alla grande Storia e all’archivio (“tutto è archivio, anche quello che faccio io”), il cinema di Pietro Marcello è spesso nostalgico di una bellezza perduta, ed è capace di un grande potere evocativo e comunicativo. Così come i suoi lavori, il regista afferma di non sentirsi ancora definito, ma in una fase di crescita continua: “È difficile per me avere un giudizio su ciò che faccio. Credo in un cinema imperfetto e amo il cinema di cuore; è necessario continuare a fare ricerca, perché il dubbio è ninfa vitale”. 

Carola Capello