In una calda notte d’estate, dalla volta celeste che sovrasta un’America sonnecchiante si staccano alcune stelle. Meteoriti incandescenti si schiantano al suolo e da essi emergono sinistre navicelle spaziali armate di raggi laser. I marziani devono lottare per la sopravvivenza e sferrano un potente attacco alla Terra con l’intento di colonizzarla, trascinando l’umanità in una guerra dei mondi dagli esiti potenzialmente distruttivi.
Pietra miliare della fantascienza letteraria e capolavoro di Herbert George Wells, The War of the Worlds conquista la cultura di massa prima con il geniale e leggendario adattamento radiofonico di Orson Welles datato 1938, poi con la riduzione cinematografica del 1953 diretta da Byron Haskin e voluta da George Pal (in seguito anche regista di The Time Machine, sempre da un’opera di Wells, sempre parte della retrospettiva “Cose che verranno”). È un film simbolo della fantascienza anni Cinquanta che, oltre a scatenare contro l’intera umanità migliaia di astronavi in assetto da combattimento, ha dato il via ad una serie di remakes e ulteriori adattamenti (da ultimo, La Guerra dei Mondi spielberghiana, aggiornata all’America post 11 settembre e decisamente meno colorata).
Pal scelse di attualizzare le vicende del romanzo rinforzando il valore metaforico del genere fantascientifico e riversandovi le ansie più o meno inconsce di un’America alle prese con le tensioni della guerra fredda e la paura del nucleare. Oltre a cercare di fornire uno spaccato completo – a metà tra il serio e il divertito – della società del tempo, Pal decise di fornire alle navi da combattimento marziane scudi resistenti ai più massicci attacchi nucleari e pose l’accento sul messaggio religioso, in grado di salvare l’umanità dall’estinzione laddove tecnologia e scienza hanno fallito.
L’aspetto più interessante e godibile del film è però la sua natura di opera-pastiche: immagini di repertorio (spesso in bianco e nero) sono mischiate con nonchalance a matte painting e modellini che risplendono in un meraviglioso e visionario Technicolor. Le navicelle aliene fluttuano come mante minacciose e si illuminano di verde acido, emettono raggi incandescenti e disintegrano cose e persone in nuvole variopinte (se ne è ricordato Tim Burton nel suo Mars Attacks!, geniale omaggio al cinema di serie B). E se Bernard Herrmann, un paio di anni prima, aveva canonizzato la musica aliena a suon di theremin e vibrafoni, Leith Stevens limita il suo contributo per lasciare spazio agli effetti sonori delle navicelle e ai boati delle esplosioni.
Allo spettatore moderno molti dei trucchi possono apparire ormai naf, eppure il film rimane un capolavoro di sfrenata fantasia, una fantasmagoria che dimostra ancor una volta come bastasse poco più di un cielo di stelle e di un lungo braccio grinzoso (possibilmente con dita a ventosa) per terrorizzare e far sognare il pubblico.