“La lingua dei furfanti” di Elisabetta Sgarbi

Qual è il gergo con cui i personaggi del Romanino comunicano tra sé e col visitatore che sappia vedere l’invisibile e ascoltare oltre il silenzio? Elisabetta Sgarbi non ha dubbi: è la lingua dei furfanti.

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Entrata nelle più sconosciute chiesette della Val Camonica in una notte di tenebre e acquazzoni, accompagnata da dolci ricordi d’infanzia e fasci di luce caravaggeschi, la regista realizza un vero horror sui generis. Una voce riconoscibile (è quella profonda di Toni Servillo) racconta alcune Storie di Daniele, e poi gli ultimi giorni della vita di Cristo: la sua passione, la sua condanna, il chiacchiericcio di quei giorni pieni di suspense. Così gli affreschi cinquecenteschi del pittore bresciano diventano un incredibile storyboard, appeso a otto metri d’altezza, ripreso in apnea – perché il minimo respiro dell’operatore farebbe tremare tutto – e accarezzato dalle musiche di Battiato. Lo spettatore alle corde dell’angoscia coglie le gambe di  un Giuda che, stringendo il magro sacchetto del bottino, già son pronte a scappare dall’ultima cena, mentre gli occhi consapevoli del tradito sono tutti per lui. Poi capisce che il vero fulcro della scena di Ponzio Pilato, che si sbarazza delle responsabilità, è proprio il servo che gli versa l’acqua sulle mani, attento a non sprecare nemmeno una goccia. I dettagli più minimi e a prima svista superflui sono invece i più portatori di significato nel cinema della Sgarbi.  Che è controcorrente, umile e per questo nobile, come la letteratura di Teofilo Folengo, come due chiappe nude che rispondono a un suono di tromba sgraziato.

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