Quanti di noi da piccoli davanti a un foglio bianco non hanno mai disegnato una casa? Tetto rosso triangolare e finestre come occhi sorridenti, oppure assi di legno inchiodate? E quanti, spinti da un’immaginazione un po’ stereotipata, non ci hanno mai aggiunto quattro ruote, e un asfalto su cui zigzagare? Il film di Michel Gondry dà tridimensionalità a quel sogno comune, calandolo in una Francia problematica nell’istruzione e nei nuclei familiari. Microbo e Gasolina sono le vittime di questi due mondi: troppo “diversi” per adattarsi alla scuola (i soprannomi provengono proprio da lì, e dal bullismo dilagante), troppo liberi per restare nel nido di famiglie dure e distanti.
“Un calcio in culo al futuro! Non hai mai anelato l’indipendenza di andare di qua e di là, senza chiedere niente a nessuno?”: ecco il punto chiave del film, una scena notturna in cui l’insonnia porta consiglio: viene fondata la ditta Microbo & Gasolina. Perché la “e commerciale” del titolo non è semplice congiunzione, ma vero e proprio marchio dell’unione tra due amici per la pelle che fabbricano sogni. Un’azienda di successo che scopre anche l’amaro delle favole che finiscono. A sorpresa non c’è vera letizia nella chiusura, quando un funerale e le regole delle istituzioni dividono per sempre il biondo e timido Microbo dal socio moro e appassionato di motori, anche se il primo porterà sempre qualcosa di quella “fragranza alla benzina” che la vicinanza del secondo gli ha trasmesso: la sicurezza in sé, e la difesa dei propri valori, anche a costo di dare un pugno sul naso a chi arrogantemente li ha appena calpestati. E poi di nuovo via di corsa, novello Antoine Doinel, che non si volta né una, né due, né sette né infinite volte, nemmeno se è il pensiero della ragazzina spasimata a chiederglielo, in un ultimo monologo interiore che è ennesima prova di una sceneggiatura coi fiocchi.
Marco Bellani, studente del Corso di Critica cinematografica (DAMS, a.a. 2015-2016)