Il secondo e ultimo capitolo di It, firmato dall’argentino Andrés Muschietti, è uscito nelle sale di tutto il mondo giovedì cinque settembre. Il plot è semplice: a ventisette anni dalla vittoria del club dei perdenti, quest’ultimi, adulti, devono ritornare nella loro odiata cittadina di Derry, su richiesta di Mike Henlon (Isaiah Mustafa), dopo aver scoperto che It si è risvegliato.
Tralasciando i background dei vari personaggi, tra i punti forti rispetto al primo capitolo, c’è sicuramente la maggiore adesione al materiale di partenza del film, ovvero il romanzo di Stephen King (che appare in un divertente cameo insieme al protagonista, il fratello di Georgie, Bill, con il quale intrattiene uno scherzoso e autoironico dialogo sull’incapacità di scrivere i finali, di cui King è stato spesso accusato dai fan). Non solo, il regista riesce a equilibrare i momenti spaventosi e quelli comici del film: i protagonisti hanno quasi sempre la battuta pronta – soprattutto Rich, diventato comico di professione -, e la componente ironica alleggerisce le ben due ore e quarantacinque minuti di durata.
Al contrario del primo capitolo, però, il secondo non è del tutto risolto sul piano narrativo: innanzitutto l’eccessivo uso dei flashback, in cui compaiono i protagonisti da bambini, rende complessa non solo l’identificazione con le loro presenze adulte (che avrebbero meritato più spessore e profondità psicologica) ma anche il loro ricordo (a volte in sala si sentiva “aspetta ma questo adesso chi è?”). Inoltre, la caratterizzazione di Pennywise (Bill Skarsgård), ben costruita e modellata nel primo capitolo, in questo ha perso quell’ironia e malvagità che caratterizzavano non solo il precedente film di Muschietti ma anche la versione, più umana e anche meno ‘digitalizzata’, interpretata da Tim Curry nel film televisivo degli anni Novanta (molto più spaventoso perché semplice nella costruzione della sua immagine in termini di make up e costume, accompagnata da una recitazione puntellata di gesti inquietanti e battute sarcastiche e pungenti).
La digitalizzazione eccessiva, seppur tecnicamente precisa soprattutto nella rappresentazione delle innumerevoli forme spaventose assunte dal clown, accompagnata da un uso eccessivo di jumpscares, rende meno efficace l’esperienza cinematografica che finisce per avvicinarsi a quella del videogame horror: ci sono infatti molti momenti del film in cui le relazioni tra i personaggi, le inquadrature e i movimenti di macchina sembrano richiamare l’esperienza di gioco; persino le battute dei personaggi sembrano uscire all’interno delle finestre di dialogo, proprio come nei videogame, facendo sembrare tutta la costruzione meccanica e macchinosa.
Nonostante queste scelte, che evidentemente mirano a una fruizione di massa e al successo commerciale, il film riesce, con accenti tetri e orrorifici, a mettere davanti allo sguardo dello spettatore il suo fanciullo interiore, con il suo passato e le sue paure, nonché a toccare tematiche importanti quali omosessualità, omofobia, razzismo, abusi domestici, relazioni tossiche, suicidio, bullismo e malattia mentale.