“PARASITE” TORNA IN SALA DOPO IL PREMIO OSCAR

La corsa di Parasite è stata davvero lunga: ha riscosso l’attenzione internazionale nella scorsa edizione del festival di Cannes e ha continuato a farsi sentire fino agli Oscar di febbraio, ricevendo premi e consensi in tutto il mondo. Lo sconfinato thriller sud coreano firmato da Bong Joon-ho si è così imposto come il film dell’anno. Alla luce dei quattro premi Oscar vinti la notte del 9 febbraio, ancora, dopo mesi di attenzione mediatica, c’è chi si domanda: perché Parasite è stato un fenomeno così dirompente? 

Volendo provare a spiegarne le ragioni, la prima è quasi lapalissiana: Parasite è un film ben scritto, ben girato e ben interpretato, la cui costruzione, in quest’era di produzione in serie, spicca per orginilità. In un momento, in cui purtroppo molti film sono il frutto di sedute di script writing, azzoppati da ritmi sempre più frenetici, Parasite è invece nato in maniera genuina, con i tempi e le professionalità adeguate per rendere il film degno di essere visto. 
Sia chiaro che non è l’unico. Però, a chi chiede perché Parasite vada visto, bisogna innanzitutto rispondere: perché è un film ben fatto. 

Un frame del film

La seconda ragione è che la storia è costruita in modo tale da evidenziare alcune peculiarità del contesto sociale e urbano coreano ma, al tempo stesso, toccare temi globali come la divisione in classi in base alla ricchezza, le differenze generazionali, non senza un invito a ritrovare una sensibilità umana. In questo modo tutti gli spettatori si sono sentiti rappresentati, ma hanno anche avuto modo di immergersi in una realtà in cui a pochi chilometri di distanza si può vivere in abitazioni di lusso o sotterranei insalubri, in cui una famiglia sopravvive piegando cartoni per la pizza, in cui è usuale mangiare in strada ma c’è anche una certa fobia per le malattie. Un mondo diverso dal nostro, che eppure è lo stesso. 

La terza ragione è la commistione di generi: invece di realizzare un dramma familiare, indugiando sui toni patetici, Parasite evolve mentre lo guardiamo, passando dalla commedia al thriller all’horror, per poi diventare dramma e infine assumere i contorni di un sogno. Questi passaggi sono agevoli e mai forzati, guidati dalla musica e dalle interpretazioni; l’alternarsi di azioni e reazioni divergono sempre di più dal punto di origine del racconto, giustificando i cambi di registro. Il risultato è che non ci si annoia mai. 

Quarto elemento da considerare è la formazione onnivora del regista Bong Joon-ho. Non è l’unico, perché molti autori coreani contemporanei (ma anche cinesi e giapponesi) annoverano tra le proprie influenze la commedia all’italiana e il neorealismo, così come nouvelle vague e grandi maestri del cinema americano. L’interesse per le cinematografie occidentali ha messo soprattutto Bong Joon-ho nelle condizioni di essere molto apprezzato all’estero, tant’è che prima di Parasite aveva già prodotto due film negli Stati Uniti. Tra i registi sudcoreani afferenti alla cosiddetta new wave, Bong Joon-ho è infatti il più trasversale rispetto ai generi e il più pop nello stile e nella costruzione della narrazione, elementi che lo rendono molto appetibile per il pubblico occidentale rispetto a cineasti come Park Chan-wook, Kim Ki-duk o Lee Chang-Dong.

Bong Joon-ho con la Palma d’Oro

Altro motivo di interesse della pellicola è il modo in cui Parasite impiega e lavora sugli elementi del linguaggio cinematografico. Si tratta di un film sorprendente e ricco di colpi di scena, costruito però mediante espedienti classici, come la cura per il montaggio alternato, l’uso drammatico del ralenti, la musica classicheggiante accostata a quella diegetica – pensiamo a In ginocchio da te trasmessa dalla radio. E’ un film che apertamente rivela i suoi espedienti, come se Bong Joon-ho ci dicesse continuamente: “Questo è un film”. Pensiamo ad esempio della scena in cui il figlio Ki-woo istruisce il padre Kim sulle battute da dire alla loro datrice di lavoro, rivelando quanti sforzi vengano posti sull’elemento della performance. In questo modo il film risulta ancora più godibile, perché coinvolge il pubblico nei suoi meccanismi di costruzione.In definitiva, questa alchimia di elementi ha reso il film di facile comprensione e coinvolgimento, senza però risultare mai scontato – anzi, ponendo numerosi e intriganti interrogativi al pubblico. E così si è fatto riconoscere, e ha battutto ogni record: primo film sudcoreano a vincere la Palma d’Oro, primo film straniero a vincere il premio come Miglior Cast ai SAG, ed ora il primo film straniero a vincere l’Oscar come Miglior Film e Miglior Film Straniero insieme. E’ anche la prima volta che Cannes e gli Oscar condividono il loro premio più prestigioso, e si tratta di un segnale davvero forte di apertura e di interesse verso un cinema diverso. Vedremo soltanto in futuro quanto il caso Parasite influirà sulle scelte future, per adesso possiamo solo tornare in sala a rivederlo, anche in Italia.

Arianna Vietina

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