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“IO CAPITANO” DI MATTEO GARRONE

Un planisfero con un enorme spazio bianco al suo interno: è questa la superficie su cui scorre il titolo dell’ultimo film di Matteo Garrone, Io capitano, vincitore del Leone d’argento per la regia all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Un’immagine eloquente, che incarna l’idea di un’assenza di confini, di limiti. Eppure un limite i due protagonisti della storia, i cugini sedicenni Seydou (Seydou Sarr, insignito del premio Mastroianni come attore emergente) e Moussa (Moustapha Fall) ce l’hanno davanti ogni giorno: quello rappresentato dalla loro città natale, Dakar. I due sognano di lasciarla e di partire per fare fortuna in Europa. Senza dire niente alle proprie famiglie e dopo aver raccolto i soldi necessari, intraprendono una traversata che dal Senegal li porterà alle coste dell’Italia; ma non sarà un viaggio privo di difficoltà.

Il film di Garrone è ambientato al presente, benché quel planisfero in apertura avesse un’aria un po’ datata e polverosa; questo, almeno sulla carta, potrebbe significare che il colonialismo è finito. Ma, come testimoniano le maglie delle squadre di calcio europee indossate dai due protagonisti o le immagini che scorrono sul loro smartphone, il colonialismo persiste, più subdolo, più sottile ma non meno feroce. La contaminazione, dunque, è sempre pronta a fare capolino; e questo lo si avverte anche nella messa in scena di Garrone. Il regista, infatti, forse memore del suo Pinocchio, decide di rendere la travagliata storia di Seydou e Moussa un racconto di formazione in cui elementi realistici si affiancano ad altri squisitamente fiabeschi e magici; un narrare che si accompagna a una concezione dell’immagine totalmente estetizzante, dove la verosimiglianza perde progressivamente di forza.

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È una strategia, quella portata avanti da Garrone, che ha un’efficacia limitata: in primo luogo perché, data la ricorrenza mediatica a cui il fenomeno migratorio è (giustamente) esposto, la dimensione estetizzante che egli architetta insieme al direttore della fotografia Paolo Carnera stride con le violenze di cui i migranti sono vittime; di pari passo, limitarsi a dipingere i due protagonisti come gli eroi di un’epopea popolata da creature minacciose e da aiutanti magici rischia di banalizzare le storie raccontate da chi a quei viaggi è riuscito a uscire, per quanto possibile, indenne. In altre parole, la confusione tra persona e personaggio e tra testimonianza e racconto porta lo spettatore a non empatizzare con quanto vede sullo schermo, anche a causa un montaggio rapido di tipo hollywoodiano e un uso della colonna a tratti fuori luogo.

Forse Garonne avrebbe dovuto evitare troppe contaminazioni (o colonizzazioni) di stili, e mantenere saldamente i piedi puntati in una tradizione cinematografica a noi più vicina, quella del realismo contemplativo; perché è soprattutto nei silenzi, nel vuoto di quegli spazi che appaiono infiniti a chi è costretto ad attraversarli che si consuma la grande tragedia della migrazione.

Alessandro Pomati

“JEANNE DU BARRY” DI MAïWENN

Inaugurata lunedì 17 luglio e in programma fino a fine mese, la Rassegna Cannes mon Amour propone un’ampia selezione di film dell’ultimo festival di Cannes in alcuni cinema di Roma, Milano, Torino, Bologna e Firenze. La prima serata è stata inaugurata dal film che ha aperto la 76° edizione del festival di Cannes, Jeanne du Barry, storia di una cortigiana di umili origini che si aggiudicò il titolo di ultima favorita del Re di Francia Luigi XV.

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“ANIMALI SELVATICI” DI CRISTIAN MUNGIU

Animali Selvatici – l’ultimo lungometraggio del cineasta romeno Cristian Mungiu, presentato in concorso al Festival di Cannes del 2022 – si apre con un’apparente e spiazzante contraddizione: nessun titolo di testa, nessun preambolo; solo una delle inquadrature a macchina fissa a cui ci ha tanto abituati nelle sue pellicole precedenti, che si focalizza su un bambino che esce di casa per andare a scuola. Dopo uno stacco di montaggio, la macchina da presa segue di spalle il bambino mentre attraversa il bosco dietro casa: lo sorpassa e si immobilizza nel momento in cui si ferma anche il bambino, il cui sguardo si è posato su qualcosa fuoricampo tra i rami alti degli alberi. Stacco al nero, cominciano a scorrere i titoli di testa. Più che in medias res, si dovrebbe parlare in questo caso di un incipit in medium nullum.

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Mungiu sembra avvertirci già dal prologo che rispetto a ciò che non vediamo, dovremmo prestare più attenzione a quello che ci sta di fronte. Ma, nel film, sono ben pochi i personaggi che sembrano abbracciare questa scuola di pensiero: siamo in un villaggio montano della Transilvania, la cui economia ruota attorno alla locale fabbrica di panetteria. È una regione del Paese dove convivono etnie diverse: romeni, ungheresi e tedeschi. È un melting pot già collaudato, a dire degli abitanti, dove non c’è bisogno di aggiungere niente di nuovo. Ma siamo nell’epoca della globalizzazione, ed è quindi inevitabile che anche qui il resto del mondo venga a bussare alla porta. Nello specifico, l’arrivo di due operai dello Sri Lanka nella fabbrica provoca prima malumori e poi violenza.

In un primo momento, Mungiu ci trae in inganno: per la prima metà del film i suoi piani-sequenza appaiono privi di una vera ragione d’essere. Ma, man mano che la situazione nel villaggio si riscalda, ecco che essi cominciano ad assumere una valenza non tanto nel catturare gli scoppi più eclatanti di violenza, quanto nel cristallizzare quei momenti in cui essa serpeggia soltanto pur suscitando più sconcerto dello scoppio di una qualunque bomba: i confronti tra i cittadini su quale debba essere la sorte dei due operai, dove emerge tutta la meschinità e infamia di cui tante volte abbiamo letto nei giornali, e tutte le scene corali che catturano il nostro presente con le sue fragilità e le sue piccole e grandi ipocrisie.

“R.M.N.” è il titolo originale della pellicola; un titolo che sembra suggerire un’idea di mantenimento dello status quo, nonostante la assenza di alcuni elementi (le vocali del nome Romania). Lo stato dell’arte è questo, sembra dirci Mungiu, cercare di cambiare le cose è inutile; anche perché poi gli animali selvatici vengono a prenderti. Una volta il cinema civile aveva lo scopo di suscitare l’indignazione verso una situazione contro cui gli umili ma virtuosi cittadini non potevano ribellarsi; oggi, dobbiamo provare indignazione anche per noi stessi. Senza volgere lo sguardo verso il fuori-campo.

Alessandro Pomati

“RAPITO” DI MARCO BELLOCCHIO

Alla fine è tutto nello sguardo, sembra volerci dire Marco Bellocchio già nei poster e nelle locandine promozionali del suo ultimo film, Rapito, presentato in concorso alla 76sima edizione del Festival di Cannes. Lo sguardo del piccolo Edgardo Mortara (Enea Sala) – sestogenito di una famiglia bolognese ebrea prelevato nel 1858 dall’autorità pontificia perché segretamente battezzato e tradotto a Roma – rivolto verso noi spettatori mentre viene tenuto in braccio da papa Pio IX. Ed è proprio il suo sguardo il cuore del racconto: lo sguardo di un bambino che viene strappato a sei anni dalla sua casa, che del mondo non sa nulla. Specialmente del mondo cristiano. I suoi occhi si soffermano sulle immagini di Cristo, sulle icone che gli vengono continuamente messe sotto agli occhi per trasmettergli più efficacemente la “vera” fede. E l’operazione di conversione infine riesce, tant’è che Mortara avrebbe vissuto il resto dei suoi giorni da missionario.

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Nel suo presentarsi come la trasposizione di uno dei fatti di cronaca più importanti della storia d’Italia, Rapito si configura anche e soprattutto come un’efficace analisi sul potere delle immagini. Al loro fascino non è immune neanche l’altra figura-cardine della vicenda, il papa re Pio IX (interpretato da un mefistofelico Paolo Pierobon), terrorizzato dalle vignette anticlericali che lo ritraggono come un “ladro di bambini”. Eppure, egli persevererà sulla sua linea fino alla breccia di Porta Pia in modo febbrile e miope (tant’è che le locandine escludono simbolicamente il suo taglio degli occhi).

Sono tanti altri poi gli elementi che Bellocchio mette in campo in questa sua ultima fatica: temi a lui cari come il trionfo dell’irrazionale e dell’incubo, la pervasività della religione cristiana che all’epoca tutto si poteva permettere (mentre già nel secolo successivo era già più debole e oggetto di scherno proprio per il regista emiliano) e l’importanza della figura materna (che in questo caso è duplice, in quanto è rappresentata dalla madre naturale di Edgardo e dalla “misericordiosa” madre Chiesa). Altri, invece, inediti come il confronto con il mondo dell’infanzia, con il suo candore e la sua delicatezza (non è difficile vedere in Edgardo e negli altri piccoli rapiti degli “antenati” dei protagonisti di Nel nome del padre).

Tutto questo al servizio di una storia che è all’origine di molte cose: delle istanze anticlericali alla base del Risorgimento; dei contrasti sempre maggiori tra le fedi. Addirittura, è anche all’origine del nostro cinema dal momento che, idealmente, Bellocchio sul finale del film rifà La presa di Roma di Filoteo Alberini. Ma , soprattutto, è la storia di uno sguardo, quello di Edgardo, che si ritroverà a non avere nulla su cui fissarsi.

Alessandro Pomati

“ALL THE COLOURS OF THE WORLD ARE BETWEEN BLACK AND WHITE” DI BABATUNDE APALOWO

If it feels this good, it must be right.

Vincitore del Teddy Award 2023, All the Colours of the World are between Black and White è il primo film a tematica LGBTQ+ ad essere realizzato in Nigeria, paese in cui l’omosessualità può costare fino a 14 anni di carcere. Bambino lavora come rider e, quando non è in sella alla sua moto, si rilassa a casa, tra le attenzioni non corrisposte della bella Ifeyinwa e le litigate dei vicini in piena crisi matrimoniale. Sarà Bawa, proprietario di un negozio di scommesse con la passione per la fotografia, a rompere gli schemi della sua vita così tranquilla.

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“ARRÊTE AVEC TES MENSONGES” DI OLIVIER PEYON

“I migliori adattamenti sono i migliori tradimenti”: con queste parole Philippe Besson, autore del romanzo Arrête avec tes mensonges, si rivolge ad Olivier Peyon, regista dell’omonimo film in concorso alla 38esima edizione del Lovers Film Festival. Un racconto a ritroso che ripercorre il primo amore del protagonista Stéphane, uno scrittore di successo ritornato al paese di origine. L’incontro con Lucas, il figlio del suo amato, risveglierà in lui i ricordi di un amore segreto, per anni tenuto in vita dai suoi racconti di finzione.

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“UN BEL MATTINO” DI MIA HANSEN-LØVE   

Parigi, oggi. Sandra (Léa Seydoux) è una traduttrice e interprete vedova da cinque anni con una figlia piccola a carico, che si ritrova a fare i conti con la malattia degenerativa del padre (Pascal Greggory), ex professore universitario di filosofia, una situazione familiare turbolenta e una relazione extraconiugale con un amico di vecchia data, Clément (Melvil Poupaud). Il tutto avrà un forte impatto su di lei e sul suo modo di vivere e la spingerà a osservare il mondo da un’altra prospettiva.

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“LA HIJA DE TODAS LAS RABIAS” di LAURA BAUMEISTER

L’esordio alla regia di Laura Baumeister, in concorso alla 40esima edizione del Torino Film Festival, narra una storia crudele e dolorosa, in grado di unificare l’oppressione di cui è vittima il suo paese d’origine, il Nicaragua, con i soprusi ai quali la piccola Maria (l’energica e pensierosa Ara Alejandra Medal) è costretta a sottostare.

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“EO” DI JERZY SKOLIMOWSKI

Sono due le principali direttrici che si possono individuare quando si tratta di rappresentare gli animali al cinema: quella che li vede come soggetti emotivi familiari e rassicuranti, capaci di far commuovere e identificare lo spettatore, e quella che sottolinea la distanza e la qualità aliena del loro sguardo indecifrabile, che interroga e mette in crisi il punto di vista umano sul reale.

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“PARLAMI D’AMORE” DI DANIELE DI BIASIO E ADELMO TOGLIANI

Questa è “una storia che sa di tram che dalle borgate ti portano a Cinecittà per fare la comparsa”: la storia tutta italiana di un talento internazionale. Scritto e diretto da Adelmo Togliani e Daniele Di Biasio, Parlami d’amore ripercorre la carriera di Achille Togliani, cantante dalla voce di velluto e uomo bellissimo, un artista che, dalle riviste alle sale da ballo, ha accompagnato l’Italia nel dopoguerra e non l’ha lasciata più. Dopo aver lavorato come comparsa, iniziò la sua carriera di “idolo romantico” con i fotoromanzi al fianco di Sophia Loren, all’epoca Sofia Lazzaro, diventandone il fidanzato e riempiendo così  le pagine della cronaca rosa.

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“IL CRISTO IN GOLA” DI ANTONIO REZZA

“Il Cristo in gola”, ultimo film di Antonio Rezza, completato diciott’anni dopo l’inizio della lavorazione, occasionalmente senza l’ausilio della sua storica partner teatrale Flavia Mastrella, è l’ennesima conferma della sua incredibile capacità di modellare il cinema alle sue esigenze performative, e mai viceversa. La scelta di utilizzare il linguaggio delle immagini per mettere in scena la sua particolarissima versione di Cristo, risulta evidente sin dall’inizio: la precisione, quasi filologica, con il quale l’attore originario di Novara traspone “Il vangelo secondo Matteo” di Pasolini viene squarciata dall’arrivo in scena dello stesso Rezza, creando una spaccatura insanabile tra questa e le precedenti rappresentazioni del figlio di Dio.

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“WHERE IS THIS STREET? OR WITH NO BEFORE AND AFTER” DI JOÃO PEDRO RODRIGUES E JOÃO RUI GUERRA DA MATA

“Per ricordare quel che è passato, andiamo piano, non c’è fretta”, canta Isabel Ruth ripercorrendo i passi di Ilda, personaggio che interpretò quasi sessant’anni fa nell’opera prima di Paulo Rocha, I verdi anni (1963). L’architettura narrativa di quest’ultima viene esplicitamente adottata dai due registi, João Pedro Rodrigues e João Rui Guerra da Mata, come partitura per la loro ballade per i quartieri di una Lisbona ormai globalizzata e gentrificata.

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Concepito come una ricerca e al contempo investigazione di archeologia urbana, Where is this street? Or with no before and after si imbatte, in fase di realizzazione, in un’ulteriore metamorfosi che offre ai due autori la possibilità di deviare dal tracciato prestabilito e adottare una nuova prospettiva ritraendo la città costretta al confinamento. Lo svuotamento dei luoghi, sintomo delle norme di sicurezza che hanno imposto alterazioni aggiuntive alla vitalità lisbonese, acquisisce infatti una valenza ulteriore e inaspettata. L’intenzione iniziale di riscoprire le ambientazioni inquadrate dall’occhio del maestro portoghese tempo addietro evolve così nello studio di quegli stessi spazi che, affetti dalla pandemia, vengono raccontati come un’eterna domenica. Il film diventa nuovo documento e propone una ricca stratificazione di significati sedimentati nel corso degli anni. Non manca il tocco di Rodrigues che rivisita con affetto le orme del suo mentore in un iter che, sequenza dopo sequenza, ci racconta i delicati colori della sua città natale in 16 millimetri.

Una fonte storica in divenire, restituita attraverso l’impronta degli autori che affidano a una coppia gay il compito di sopperire al bacio negato ai protagonisti di I verdi anni, ma anche attraverso l’apporto di Isabel Ruth che fa rivivere il film originario dedicando una canzone alla variopinta Lisbona che ama incondizionatamente.

Yulia Neproshina

Articolo pubblicato su “la Repubblica” il 01 dicembre 2022

“RUNNER” DI MARIAN MATHIAS

Campi sterminati, cieli lividi, vento che soffia impietoso: questo il paesaggio di Runner di Marian Mathias, crudo dramma sociale che racconta la scoperta dell’amore nell’immutabilità del Midwest americano. La storia di Haas, una sorta di Dorothy contemporanea che, come la protagonista de Il mago di Oz, viene colpita da un “ciclone” che la mette in viaggio: la scomparsa del padre e il pignoramento della casa. Partita alla volta dell’Illinois per soddisfare le ultime volontà del defunto, torna con la consapevolezza di poter scegliere del proprio destino.

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“KRISTINA” di NICOLA SPASIC

Con molta delicatezza, Nikola Spasic ci racconta una storia in perfetto equilibrio tra realtà e finzione. Un racconto per immagini iniziato sei anni fa con l’obiettivo di realizzare un’opera il cui centro narrativo fosse un soggetto forte. La protagonista di questa storia, Kristina, è una donna transgender che colleziona oggetti di antiquariato, ama i gatti e vive in una casa dal design ricercato ed elegante. Un ambiente, questo, completamente in contrasto con il suo lavoro. La donna, infatti, è una sex worker ma la sua professione non è il fulcro di ciò che vediamo sullo schermo. Quella che ci viene mostrata è una quotidianità perfettamente scandita e organizzata che pare quasi disturbata dagli incontri con i clienti. E ciò che rende più significativo e interessante il film di Spasic è il fatto che Kristina non sia un personaggio recitato da un’attrice professionista, bensì una persona reale alla quale il regista e la sceneggiatrice si sono voluti ispirare per costruire il film. 

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A differenza di ciò che ci si potrebbe aspettare, il sesso è un elemento esterno al film, sostituito dalla grande fede e spiritualità di Kristina. Molto significativo è l’incontro con Marko, un ragazzo conosciuto per caso e nel quale la protagonista continuerà a imbattersi ripetutamente, al punto da indurla a domandarsi se la presenza dell’uomo sia reale o il frutto della sua immaginazione. Durante un appuntamento i due hanno un dialogo intenso che li porta a confidarsi l’uno con l’altra e a parlare della loro fede. E con un gioco di campo-controcampo che, durante la scena, non li inquadra mai insieme, anche nello spettatore comincia a sorgere il dubbio sull’effettiva esistenza di Marko.

Kristina si rivela il luogo d’incontro tra la messa in scena e l’autenticità umana. Un omaggio a una vita “diversa” che trova la sua massima espressione nella scena finale, quando lo spettatore si trova a riflettere mettendo inevitabilmente in discussione anche sé stesso. Attraverso lo sguardo creativo del regista, Kristina diventa una persona alla quale è stata restituita appieno la propria dignità. 

Gaia Verrone

Articolo uscito su «la Repubblica» il 2 dicembre 2022

“THE WOODCUTTER STORY” DI MIKKO MYLLYLAHTI

“Mi chiedo perchè il realismo venga circoscritto esclusivamente alla percezione del mondo in stato di veglia. Il sogno che ho fatto stanotte è parte della mia realtà tanto quanto il mio qui e ora”, spiega Mikko Myllylahti in merito al suo esordio come regista in The Woodcutter Story. La sua esplorazione di impressioni oniriche, immerse in un’atmosfera percossa da brividi esistenziali kafkiani, mette in scena dei personaggi stoici, seppur caricaturali, e saturati almeno quanto lo sono i colori che brillano sullo sfondo innevato di un’ambientazione anonima e atemporale. 

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La sceneggiatura si esprime, oscillante come un pendolo, per esitazioni, silenzi sospesi e dialoghi asciutti ma perentori e iperbolici, restituendo un clima assurdo dalla comicità spiazzante e inattesa. Un umorismo inevitabile, quello di Myllylahti, impiegato come meccanismo di difesa universale nell’affrontare i più grandi interrogativi filosofici. Il protagonista, Pepe, è un taglialegna affabile e inspiegabilmente ottimista la cui quiete e stabilità verranno messe a dura prova dalle più travolgenti avversità. Ma non è il solo: ciascuno dei personaggi satellite è alle prese con le proprie peripezie, che ostacolano inevitabilmente il loro percorso verso il tanto ricercato quanto fugace senso delle cose. Questo film, che si dimostra essere al contempo serio e ironico, metaforico e d’intreccio, immortala questi avvenimenti apparentemente effimeri con inquadrature che ci tengono a distanza, inasprendo l’estraniazione tra noi e i moventi dei personaggi. Anche in virtù di ciò il costume design assume un ruolo determinante, in particolar modo per permetterci di riconoscere il taglialegna, anche in un campo lunghissimo.

Una rielaborazione fiabesca e laica del Libro di Giobbe che, invece di prendere in esame il rapporto tra la giustizia di Dio e la presenza del male nel mondo, si interroga su come si possa resistere al nichilismo e trovare la forza di confidare nell’avvenire in un mondo il cui significato sembra essere stato da tempo deturpato. Non si tratta più di trovare, dunque, una verità univoca e rassicurante, ma di dare respiro all’ambiguità e accogliere le prospettive dell’assurdo per poter scorgere sfaccettature del reale che altrimenti avremmo ignorato. Potremmo quindi riconoscere in Pepe l’ingenua sintesi tra la perseveranza di Sisifo e il successo del Viandante sul mare di nebbia che, pur raggiungendo la cima della montagna, vi trova una visuale offuscata.

Yulia Neproshina

CARLOS VERMUT

Finalmente Carlos Vermut è arrivato in Italia. A porre fine alla colpevole miopia nei confronti del suo cinema, riservatagli dalla distribuzione e dai festival italiani, ci ha pensato il Torino Film Festival. Fiore all’occhiello di questa quarantesima edizione, la personale dedicatagli conferma la grande capacità del festival torinese di far scoprire al pubblico italiano cineasti pressoché sconosciuti ma sicuramente meritevoli di mostrare il proprio lavoro a una platea più ampia possibile. Nel caso del cinema del giovane regista spagnolo vale anche l’opposto: non solo egli è sicuramente degno di essere scoperto, ma il pubblico stesso merita di assaporare le sue opere, in quanto rari esempi, nel panorama odierno, di film capaci di coinvolgere gli spettatori, senza però trascurare uno studio attento e approfondito della società odierna.

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“CINQUE UOMINI, UN DIARIO AL DI LÀ DELLA SCENA” DI COSIMO TERLIZZI

Antonio, Abder, Bartek, Boubacar e Dorin sono i protagonisti del nuovo documentario di Cosimo Terlizzi che, attraverso un collage di vecchi filmati amatoriali, ci restituisce un frammento dell’intimità e della vita dei cinque attori. Un’opera intima che testimonia ciò che accade lontano dal palcoscenico e dai riflettori, rappresentando la vita dell’attore nel momento in cui non sta più mettendo in scena la sua arte.  

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“Non sono bravo a filmare e ancora meno a parlare davanti all’obiettivo, ma ho deciso di fare un diario della tournée per registrare i sentimenti e i dubbi al di là della scena”, queste sono le prime parole dette in camera da Antonio quando, nel 2008, decidee di filmare i suoi compagni di scena durante la tournée del loro spettacolo, Cinq Hommes, immortalando viaggi in treno, passeggiate notturne e, soprattutto, i momenti condivisi nel camerino e dietro le quinte. Nel corso documentario siamo accompagnati dalla voce in voice over di Antonio che ci narra ciò che stiamo vedendo, trasportandoci all’interno delle immagini.  

Quello realizzato da Terlizzi, in soli 62 minuti, è un omaggio alla figura dell’attore, mai disgiunta però dalla sua condizione di uomo. Questo consente allo spettatore di entrare in punta di piedi nel camerino e di osservare la gioia, la soddisfazione, la delusione e la frustrazione che i cinque uomini hanno vissuto insieme. La scelta di lasciare riprese e sonoro al loro stato amatoriale è in grado di donare al girato un valore aggiuntivo, trasmettendo in chi guarda quella nostalgia che si prova nel rivedere immagini del passato.  

Protagonista indiscusso del documentario, però, è il camerino. Un luogo di passaggio, fisico ma immateriale. Un “non luogo” all’interno del quale tutto si muove nell’ombra e nel silenzio. Lo spettatore viene così invitato in quello spazio del quale conosce l’esistenza ma che, allo stesso tempo, gli è sconosciuto. Un luogo privato, che esclude lo sguardo esterno nel quale siamo invitati a entrare solo grazie all’obiettivo di Antonio.  

Gaia Verrone

“FUMER FAIT TOUSSER” BY QUENTIN DUPIEUX

Article by: Davide Gravina

Translated by: Rachele Pollastrini

Yes, Quentin Dupieux has done it again. After the killer tyre in Rubber (2010), the jacket in Deerskin (2019) and the fly in Mandibles (2020), this time it is some eccentric horror stories – not very scary actually, rather pleasantly hilarious – that wring big laughs and dominate the scene in the latest film by one of the most absurd and paradoxical authors of contemporary cinema.

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“FUMER FAIT TOUSSER” DI QUENTIN DUPIEUX

Ebbene sì, Quentin Dupieux ci è riuscito ancora. Dopo lo pneumatico assassino di Rubber (2010), la giacca di Doppia pelle (2019) e la mosca di Mandibules (2020), questa volta sono alcuni eccentrici racconti dell’orrore – poco spaventosi a dir la verità, anzi piacevolmente spassosi –  a strappare grasse risate e a dominare la scena dell’ultimo film di uno degli autori più assurdi e paradossali del cinema contemporaneo.

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“PROJECT WOLF HUNTING” BY KIM HONG-SUN 

Translated by: Benedetta Francesca De Rossi

Article by: Giuseppe Catalano

There’s nowhere to run

A group of extremely dangerous Korean criminals leave the port of Manila on a hyper-secured cargo ship to return home, where they will finally be tried for their crimes. What could possibly go wrong? 

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