“KUFID” DI ELIA MOUTAMID

“Da piccolo i miei genitori mi hanno insegnato a dire Inch’Allah (se Dio vuole) quando metto in programma di fare qualcosa. Ecco, Kufid è questo: la pianificazione di qualcosa di non pianificato. Un ossimoro”. Così afferma Elia Moutamid – regista di origine marocchina, menzione speciale come miglior regista esordiente ai Nastri d’Argento 2018 –, il cui primo film Talien fu premiato nel 2017 con il Gran Premio della Giuria al Torino Film Festival.

Il regista illustra immediatamente allo spettatore cosa è Kufid: un film non programmato, o meglio, un film inaspettato. È infatti la sua voce che, in apertura, racconta di avere avuto un’intenzione completamente diversa per il suo secondo lungometraggio rispetto a quella che ha poi realizzato. L’idea era quella di girare un documentario sul rapporto tra uomo e urbanistica a Medina, la città natale di Moutamid. Il tema della “gentrificazione” avrebbe dovuto essere centrale, raccontando di dinamiche umane attraverso la narrazione autobiografica ma, una volta terminato il sopralluogo e rientrato in Italia, qualcosa di inaspettato si scatena sulla collettività, kufid appunto. Lo stravolgimento dei piani causato dalla pandemia e la quarantena forzata si rivelano però per l’autore una preziosa opportunità di riflessione.

Il documentario, ambientato in una delle zone più colpite dal virus cioè a Brescia in Lombardia, alterna riprese girate all’interno della casa di Moutamid – alle prese con pulizie, giardinaggio e videochiamate – a immagini di strade deserte ed edifici che appaiono abbandonati. L’intento non è quello di fare un film sulla pandemia, ma di girare un film durante la pandemia: un momento in cui far fruttare il forzato isolamento stimolando la mente e la creatività.

Lo scopo sembra essere quello di raccontare il mondo esterno dall’interno delle mura di casa ma il vero obbiettivo (e la scommessa) per Elia Moutamid – che per questa occasione si è occupato, oltre che della regia, anche della scrittura, della fotografia e del montaggio –, è costruire un film su se stesso, di cui essere attore e narratore. Il regista infatti si racconta nell’intimo della sua identità divisa tra Marocco, terra d’origine, e Lombardia, regione italiana nella quale è cresciuto. E lo fa anche attraverso le lingue: l’arabo, che può essere definita la “lingua della testa” di Moutamid, passando per l’italiano fino al dialetto bresciano, quali “lingue della pancia”. Il racconto di sé, delle proprie convinzioni e contraddizioni, risulta quindi riuscito grazie al continuo “scambio culturale” tra questi due paesi (reso esplicito dalle immagini e dal registro linguistico) ed al costante passaggio tra il mondo esterno e quello più intimo e profondo, fatto di emozione, riflessione, ma anche di preoccupazione, della propria interiorità.

Carola Capello

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