Secondo lungometraggio della regista quebecchese Chloé Leriche, Soleils Atikamekw ritrae il profondo dolore intergenerazionale della comunità Atikamekw di Manawan, Québec. La delicatezza estetica e l’accurato lavoro formale del film non sono volti a indorare la pillola, bensì a testimoniare la forza e la bellezza di una comunità che, seppur distrutta, tenta di ricostruire la propria memoria.
La regista si ispira liberamente a sogni, impressioni e ricordi dei familiari delle vittime della tragedia del 26 giugno 1977 in cui morirono annegate cinque persone della comunità Atikamekw; il declassamento della strage a “incidente”, nonostante l’indubbia motivazione razziale, consentì alla polizia e alle autorità competenti di non fare mai chiarezza sull’accaduto. Ma oltre alla volontà di mostrare i danni del colonialismo e la forza tentacolare del razzismo sistemico e millenario ai danni delle Prime Nazioni (popolazioni indigene canadesi), Chloé Lariche si impegna con successo nel mettere in primo piano il lutto collettivo in tutta la sua crudezza.
Il film si apre sui veri parenti delle vittime, dopo quasi cinquant’anni ancora visibilmente piegati dall’enorme peso della tragedia, da preghiere mai esaudite e richieste mai accolte. Sono proprio le loro voci che, fuori campo, costellano il film in modo che lo spettatore, anche nelle scene più onirico-fantastiche, non possa allontanarsi dalla dimensione di realtà a cui sono ispirate le immagini sullo schermo. In bilico tra realtà e sogno, tra documentario e finzione, ciò che emerge è una narrazione intrisa di realismo magico.
Il dolore è qui elemento dominante, così sconvolgente da uscire dallo schermo tramutandosi in qualcosa di concreto. Un dolore che pervade le inquadrature ampie di paesaggi quieti e incontaminati trasformandoli, grazie anche alla colonna sonora, in luoghi inquietanti e claustrofobici in cui l’atmosfera di pericolo è palpabile. Un dolore che nei primi e primissimi piani degli attori occupa tutta l’inquadratura, ma che non è mai ostentato. Un dolore fatto di silenzi e di urla. Un dolore che attraversa più generazioni, allontanandole le une dalle altre nella sofferenza, ma avvicinandole nella memoria e nella volontà di giustizia.
L’assenza di speranza, l’impossibilità di rintracciarne un barlume durante tutto il film è intenzionale perché, come afferma la stessa Chloé Lariche, è piuttosto nel processo di creazione del film che si trova un forte spirito di resilienza. L’intenzione delle famiglie coinvolte e della comunità Atikamekw di riscrivere la loro storia nel modo in cui è accaduta è, in sé, un deciso e coraggioso atto di speranza.
Giorgia Andrea Bergamasco