«Ma che fai, dormi a quest’ora? No. Sogno».
Se potessimo vedere con l’occhio di un pittore il ritratto che Mimmo Calopresti realizza di uno degli stilisti italiani più amati e più geniali, esso ci apparirebbe come un chiaroscuro. Un docu-fiction che alterna la realtà e la finzione, il passato e il presente, l’ampio bagaglio culturale del protagonista e l’abbandono degli studi. Una dualità che converge, in fondo, nella costruzione di grande personaggio, un sognatore con i piedi per terra: «Io vivo in un sogno. Il mio sogno si sta realizzando: essere Gianni Versace».
In Gianni Versace: l’imperatore dei sogni, film presentato alla 41esima edizione del Torino Film Festival nella sezione Ritratti e Paesaggi, viene ricreata da Mimmo Calopresti (anche sceneggiatore insieme a Monica Zambelli), la vita di Gianni Versace dalle sue origini, nella Reggio Calabria degli anni Cinquanta e Sessanta, quando Gianni (Leonardo Maltese), in gioventù, trascorreva le giornate a curiosare il lavoro della madre sarta (Vera Dragone). Prosegue con il suo trasferimento a Milano negli anni Settanta, dove Versace può dare sfogo alla propria genialità, gettando le basi per l’ascesa del marchio. Termina con il tragico assassinio a Miami Beach nel 1997. Una ricostruzione che, proponendosi come un album dei ricordi con una pagina trasparente e una ricca di fotografie colorate, potrebbe lasciare disorientati sembrare indefinito, quasi confusionario. A rispondere a questo possibile disorientamento risponde l’ordine che Calopresti ricompone con l’organizzazione del racconto biografico in quattro capitoli.
Attraverso i capitoli la figura di Gianni Versace prende forma come quell’imperatore dei sogni evocato dal titolo, colui che è riuscito a governare i sogni trasformandoli nella propria quotidianità. «Amo gli uomini che hanno coraggio di essere eroi», dice Versace riassumendo quello che sembra essere un esplicito invito a non smettere mai di rincorrere ciò che si desidera.
Elisa Gnani