Mauro Herce, di origine catalana, al suo debutto da regista ci propone Dead Slow Ahead, un lungometraggio che – è stato detto in sede di proiezione, con il regista presente – è stato “conteso” fino all’ultimo tra la sezione “Cose che verrano” per il suo carattere fantascientifico e la sezione Tffdoc che infine è riuscita ad aggiudicarselo.
In una dimensione onirica e documentaristica insieme la nave cargo “Fair Lady” è protagonista del film e sembra quasi prendere vita in modo autonomo, diventando l’ultima oasi abitata nell’oceano. L’equipaggio è un mero strumento in balia della nave la quale “parla” con suoi rumori e prosegue un viaggio senza fine apparentemente per propria volontà. Il regista da bambino osservava le grandi navi cargo viaggiare come fantasmi con destinazioni ignote al largo di Barcellona. Così decise di volerne sapere di più su questa realtà, su questo grandi battelli che trasportano più del novantacinque percento delle merci del globo.
Dopo un anno di progettazione è salito a bordo di una di queste navi e per tre mesi ha ripreso con la sua macchina da presa un’enorme quantità di materiale audiovisivo. Le inquadrature, per lo più fisse, costituiscono immagini statuarie e di agghiacciante bellezza. Vediamo un susseguirsi ripetitivo di gru che caricano la stiva gargantuesca della nave, mentre le forme strane delle nuvole sul mare desolato e l’incresparsi delle onde conferiscono ritmo alle sequenze. Il ritmo è dato a volte dal sali e scendi della nave, altre dai ripetitivi rumori a bordo o dai silenzi interrotti dalle comunicazioni via radio. Queste sequenze vengono montate per lo più con stacchi netti senza abusare di dissolvenze o di cambi fuoco, dimostrando allo spettatore che l’oggetto del suo sguardo sta acquistando vita propria.
Nelle geometrie perfette delle riprese (in particolare quelle girate nella stiva) la nave con la sua ossatura ferrea ci pare una cattedrale gotica che emerge nell’oceano. La luce del sole filtra al suo interno proiettando ombre sulle pareti; gli esseri umani appaiono piccoli in ambienti di ampiezza inadeguata a loro. E’ interessante vedere come l’equipaggio diventi macchina e le macchine assumano vita. Il rumore di bordo, il lampeggiare di spie e i telefoni che squillano in plancia ci suggeriscono che la nave ha il controllo completo di se stessa.
L’inico momento in cui abbiamo alcuni movimenti di macchina è quello in cui ascoltiamo, verso il finale, le telefonate dei marinai con le proprie famiglie. Le conversazioni ci paiono toccanti e allo stesso tempo crudeli mentre la macchina da presa inquadra il lungo districarsi di tubi come se fossero le vene della nave. Le faccende personali dei marinai lontani dal loro sfumano sotto il rumore forte e costante del battito del cuore-motore della nave. E’ lei l’unica e vera protagonista della storia. L’unica che sembra realmente vivere e respirare.
Questo documentario dotato di indiscutibile bellezza estetica sembra peraltro portarci in una dimensione quasi fantascientifica dove una nave fantasma naviga nel mare con destinazione sconosciuta.