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Intervista a Samuele Sestieri e Olmo Amato, registi de “I racconti dell’orso”

Gli studenti del Dams Cinema guardano ai film in concorso al Torino Film Festival con passione, critica ed ammirazione. Romanticamente sperano di essere lì, un giorno, a presentare una loro opera.Samuele Sestieri ha un passato come critico cinematografico e Olmo Amato come regista di cortometraggi; la loro giovane età e il fatto di essere in concorso con la loro opera prima, ci dà fiducia e speranza.

I racconti dell'orso - film

Li abbiamo incontrati ed intervistati per cercare di capire le difficoltà che giovani cineasti possono incontrare nella realizzazione del loro primo lungometraggio.

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Premio Cipputi alla carriera a Francesca Comencini

A vent’anni dalla sua nascita il premio Cipputi viene assegnato a Francesca Comencini, unica cineasta ad aver avuto per due volte questo onore, nel 2007 per il film In fabbrica e quest’anno come riconoscimento per la sua carriera.

La regista è particolarmente legata a questo premio, anche perché sotto la direzione di Gianni Amelio aveva fatto parte in passato della giuria dello stesso. Afferma che è molto legata a In fabbrica e si rifiuta di incasellarlo all’interno di un genere ben definito. L’intento della Comencini non è infatti quello di fare film sul tema del lavoro, ma quello di “raccontare” le persone: “film contemporanei esposti in modo familiare”, specchi delle vite degli altri. Il lavoro è solo uno dei ounti di vista possibili per raccontare gli esseri umani ai giorni nostri.

Cita l’esempio di Mobbing – Mi piace lavorare, film che tratta il tema spinoso delle donne all’interno di un mondo del lavoro maschilista. Francesca Comencini si lamenta della scarsa presenza di registe e di personaggi femminili che non siano subalterni a quelli maschili nei film italiani; riscontra ad esempio un’insopportabile retorica nella visione maschile di temi come la maternità. La sua personale visione collettivistica tutta al femminile e le sue convinzioni politiche condizionano ovviamente il suo modo di lavorare .

Un giornalista chiede cosa pensi la Comencini della serie televisiva Gomorra di cui ha scritto due episodi nella prima stagione e prevede di firmarne tre nella seconda. Ammette di essere “elettrizzata” per questo lavoro e di essere pronta a far valere il suo punto di vista femminile nella serie. Per l’episodio 7, da lei scritto, rivela di essersi ispirata ai suoi documentari sul lavoro al fine di rendere verosimile l’organizzazione criminale dello spaccio: anche lì sono necessarie regole e orari ferrei.

Tra i progetti futuri di Francesca Comencini c’è la collaborazione con il progetto Fandango intitolato Nella battaglia: un film sulla lotta sentimentale tra uomo e donna, fuori da un ordine patriarcale precostituito, alla ricerca di una parità di ruoli che mantenga le caratteristiche di genere.

Premio Maria Adriana Prolo 2015 a Lorenza Mazzetti

Quando la si vede dietro il grande tavolo rosso delle conferenze stampa, un po’ piccolina tra Stefano “Steve” Della Casa e David Grieco, non si può fare a meno di pensare a tutte le vite vissute da Lorenza Mazzetti. Se le porta dietro e addosso: un basco nero appoggiato sui capelli ribelli, il taglio degli occhi disegnato all’ingiù, la voce calma e quel suo modo magnetico di raccontarsi e farci stare incollati alle sedie senza perdere nemmeno una parola.
“Io le cose ve le dico, ma sarebbe meglio che leggeste Diario londinese, il mio ultimo libro”.
Ironica, scanzonata, anticonformista. Non è cambiata molto dal 1956, quando firmava il manifesto del Free Cinema insieme a Lindsay Anderson, Karel Reisz e Tony Richardson.

lorenza mazzetti free cinemaLa sua è una bella storia che inizia in un locale in centro a Londra, quando Lorenza era una cameriera dalla lingua svelta che voleva iscriversi alla Slade School of Fine Art senza un soldo, né i moduli necessari. La segretaria la cacciò, lei iniziò ad urlare e da una delle porte uscì “un uomo in bretelle, probabilmente un inserviente che chiese cosa stava succedendo. ‘Io voglio venire qui ad imparare, a dipingere, a lavorare!’ gli dissi. ‘Ma perché proprio qui?’ ‘Perché sono un genio!’ Non sapevo che altro dirgli.”
Il signore le dà dei moduli da compilare dei fogli e le dice di presentarsi la mattina seguente.
“Io ero anche un po’ perplessa e gli ho chiesto: “Ma cosa dirà il direttore?” “Niente, perché il direttore sono io!” Insomma, aveva le bretelle ed era in maniche di camicia e gli spiegai che in Italia il direttore di un’università non si sarebbe mai presentato senza la giacca. Non avrebbe nemmeno mai ammesso una ragazzina senza soldi che viene qui senza firmare nessun modulo e pretende di essere un genio! Ecco, capite? Non ho potuto fare a meno di innamorarmi di quest’uomo!”
Così, Lorenza inizia a frequentare l’università, si annoia un po’ a dipingere e preferisce gironzolare nei corridoi fino a quando si trova davanti alla porta del Film Club. La spinge, entra e vede “luccicare il tesoro… ve lo immaginate? C’erano le pizze, i treppiedi, la macchina da presa, tutto lì. Ho pensato ad un’unica cosa: mi porto via tutto.”  Con l’aiuto di un amico, “un giovane pittore bellissimo”, l’attrezzatura sparisce e Lorenza inizia ad immaginare il suo primo film. Pensa a Kafka, ha la sua foto appesa in camera: un viso fragile e terrorizzato che guarda il mondo. “Lo adoravo!”, racconta, “Così propongo al mio amico di fare l’attore, anche se lui non sapeva chi fosse Kafka. ‘Ma come?! La metamorfosi…’ ‘Mmh e come finisce?’ ‘Bene, lui è disteso a letto, ci mette molto ad alzarsi, ma poi si sposa e ha un sacco di figli!’ Gli risposi”.
Una volta girato il film, Lorenza porta tutto al laboratorio dove venivano sviluppate le pellicole dell’università, firmando con un nome falso e assicurando che la Slade School of Fine Art avrebbe pagato tutto.
“Ovviamente il direttore fu avvisato della cosa, gli dissero che era passata una strana ragazza con l’accento francese. ‘Ah, il genio’, rispose lui e mi mandò a chiamare. ‘Sai cosa hai combinato? Hai firmato il falso, usato dei soldi non tuoi: questo si chiama rubare e chi ruba va in prigione!’ ‘E allora mi ci mandi!’, dissi io andandomene, ma lui mi corse dietro: ‘Senti Lorenza, non voglio mandarti in prigione ancora. Prima facciamo vedere agli studenti quello che hai fatto, se applaudono paghiamo noi, se fischiano, tu vai in prigione.’ Ecco, a questo punto io stavo davvero male, ve lo immaginate? Avrebbero fischiato di sicuro. E invece applaudirono!”
Quel giorno non furono solo gli studenti ad applaudire, ma anche il direttore del British Film Museum, “un uomo bellissimo, tipo Kennedy, tanto che mi innamorai anche di lui! Mi chiese se volessi fare altri film senza rischiare di andare in galera e di portargli un’idea. L’indomani mi presentai da lui per il tè delle 17, tirai fuori l’idea dalla tasca, ma facendolo urtai il tavolino e buttai il tè bollente sul suo ginocchio… ‘Oh, cos’ho fatto?! I’m sorry, what can I do?’, gli dissi preoccupatissima. E lui: ‘Don’t worry, my leg is wood’, e ci bussò sopra per farmi sentire il rumore del legno. Poco dopo mi raccontò di aver lasciato la sua gamba a Cassino, per me e per tutti gli italiani. A quel punto l’ho abbracciato.”

Lorenza arrivò a Londra con un bagaglio personale pesantissimo: nel 1944 aveva assistito, insieme alla gemella Paola, all’esecuzione della zia e delle cugine sotto i suoi occhi, durante la Strage di Rignano. Anche Karl Reisz aveva vissuto in prima persona la tragedia della guerra: i suoi genitori furono entrambi deportati a Buchenwald. “Nessuno sapeva dell’altro, il nostro incontro fu un incontro basate sull’arte, sull’idea di cinema che avevamo. Non potevamo più sopportare l’idea che l’Inghilterra agisse come se non ci fosse stata alcuna guerra. Il popolo non aveva voce in capitolo e per questo abbiamo deciso di fare dei film che parlavano della gente comune, dei beatles, per farli finalmente uscire dalle cantine e farli arrivare agli occhi dell’upper class inglese”.

Lorenza Mazzetti a Londra

David Grieco ricorda che la vita di Lorenza è raccontata nel libro Il cielo cade, scritto quando, dopo l’esordio londinese con il cinema, Lorenza decide di tornare in Italia. La casa che divide con il nuovo compagno Bruno Grieco, padre di Davide, si apre ai registi e agli intellettuali dell’epoca. Qui “transitava tutto il cinema europeo in modo abbastanza casuale. Secondo uno strano e tacito accordo, tutti pensavano che Lorenza sarebbe tornata dietro la macchina da presa e venivano a passare le vacanze da noi. Lindsay Anderson diventò una specie di mio zio, Malcom McDowell diventò il fratello che non avevo essendo figlio unico, e con lui feci anche dei film.”
Quella casa era un luogo di libertà senza inviti né orari, un confessionale dove si incontrava gente e nascevano progetti. “La grande attrazione della casa era il tavolo da ping pong e la gente più improbabile si sfidava: Rod Steiger arrivava a mezzanotte con le palline e si cominciava. Un altro che frequentava spesso la casa era Gianmaria Volonté, all’epoca in una situazione difficile e con molti debiti. Un giorno ci dice: ‘Sto facendo un western con quel matto di Sergio Leone. Non me ne frega niente, ma mi servono i soldi e l’unica cosa di cui sono certo è che non lo vedranno mai…’ Il film era Per un pugno di dollari! Ecco, Lorenza mi ha regalato questa adolescenza qui, con tutti i danni che sono arrivati dopo.”

A Lorenza Mezzetti quest’anno il Torino Film Festival assegna il premio Maria Adriana Prolo, mentre Francesco Frisari e Steve Della Casa stanno realizzando il documentario Perché sono un genio. Sarà pronto la primavera prossima, racconterà la vita dell’artista e il modo in cui Lorenza è riuscita ad attraversare i momenti più importanti del Novecento con la sua personalissima dose di forza e fragilità. La rivista “Mondo Niovo” diretta da Caterina Taricano ha dedicato un intero numero alla Mazzetti, la quale ha dichiarato: “Mi sembra incredibile apparire sulla copertina di una rivista. Devo dire che però un po’ me lo aspettavo, essendo un genio.”

Mazzetti premiata al TFF33

“Sunset Song” di Terence Davies – Conferenza stampa

Si è tenuta venerdì mattina la Conferenza Stampa di Sunset Song con la partecipazione del regista e sceneggiatore Terence Davies. Tratto dal romanzo Canto del tramonto (1932) di Lewis Grassic Gibbon, il film è ambientato nell’immensa e gialla campagna scozzese, dove una donna giovane, bella e intelligente, Chris Guthrie, cresce in una numerosa famiglia con un padre violento e una madre sottomessa.

Il regista racconta come si è innamorato di questa storia: nel 1971 rimase affascinato vedendo in televisione per sei domeniche gli episodi di uno sceneggiato televisivo tratto dallo stesso romanzo; poi acquistò il libro e ne rimase completamente rapito tanto da decidere di farne un film. E solo dopo 18 anni, il film è stato finalmente realizzato.

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“Terrore nello spazio” di Mario Bava – Conferenza stampa

Nicolas Winding Refn e Fulvio Lucisano si presentano nell’affollatissima sala conferenze in pompa magna; ad affiancare il giovane e allampanato regista danese e lo storico produttore italiano ci sono due ragazzi con indosso i costumi originali del film, quelli degli astronauti che, ci rivela Lucisano, non erano “poi così buoni” a detta di Mario Bava, il quale per questo motivo volle che le loro tute richiamassero le divise naziste.

Mario Bava, come è noto, non ha mai amato la qualifica di autore: si è sempre considerato un artigiano finito, per ragioni personali, a lavorare nel cinema. Ma questo, ammonisce Refn, non deve trarci in inganno: Terrore nello spazio è un capolavoro non solo nell’ambito dei generi horror e sci-fi (affiancabile ai più celebrati Blade Runner e 2001: Odissesa nello spazio), ma nell’ambito del cinema italiano in senso assoluto, alla pari dei migliori lavori di autori come Fellini e Visconti.

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Nicolas Winding Refn

Refn racconta alla stampa quali sono le origini del suo amore per Bava, nato attraverso gli schermi delle televisioni americane che ipnotizzavano per ore il piccolo Nicolas nella sua casa di New York. Sorridendo ci racconta come dovesse eludere le strette regole imposte dalla madre sull’uso della tv e come proprio la madre, con il suo background artistico e politico, ha influenzato la fascinazione del piccolo Refn per la pop art sia a livello di design, sia a livello di fashion. Questa fascinazione si rispecchia in Terrore nello spazio perché tutto ciò che si vede nel film di Bava avrebbe potuto figurare in una mostra di Andy Warhol, dalle surreali scenografie agli attillati costumi di pelle che donano una componente erotica e omoerotica alla vicenda.

 

La severa educazione materna generò inoltre in Refn una sana sete di ribellione. Se la madre era hippie e pacifista, l’adolescente Refn amava Ronald Reagan, la guerra, il cinema muscolare e violento, i film di genere che, nel ventennio precedente, era dominato dal marchio italiano. Egli non ha mai nascosto il suo amore per questo tipo di cinema che molti considerano di serie B (un altro dei suoi film preferiti è Città violenta di Sergio Sollima), ma quando gli viene chiesto se troveremo qualche riferimento ad esso nel suo prossimo film, Neon Demon, si chiude nel silenzio. Il film è ancora in fase di lavorazione, ci dice, per ora è soddisfatto, e presto ne sapremo di più.

Quello che sicuramente sappiamo è che già nei suoi film precedenti gli omaggi al cinema italiano di genere non sono mancati. Il segno più forte, sottolineato da lui stesso, è nel feticismo e nell’erotismo che caratterizza Drive, il suo film più noto. Proprio come le tute degli astronauti di Terrore nello spazio, anche la giacca del silenzioso guidatore non è altro che un sostituto della pelle nuda: un catalizzatore di erotismo. Per Nicolas Winding Refn fare cinema è proprio come fare sesso: una sperimentazione continua spinta da una passione irrefrenabile.

“Ya tayr el tayer” (“The Idol”) di Hany Abu-Assad – Conferenza Stampa

“Ero completamente assorto nello schermo, nella piazza di Nazareth, insieme ad altre migliaia di persone e attendevamo il verdetto finale di Arab Idol; nel momento della vittoria ho saltato e ho esultato come un bambino.” (Hany Abu-Assad)

Ieri mattina in sala Conferenze stampa erano presenti Hany Abu-Assad e Amira Diab, regista e produttrice di “Ya tayr el tayer” (“The Idol“), film che racconta l’incredibile storia di Mohammad Assaf, vincitore del talent “Arab Idol” nel 2013. Il regista ci svela fin da subito di aver cambiato alcuni particolari della vita del ragazzo, ad esempio sua sorella maggiore morì da piccola a causa di un problema cardiaco, mentre nel film muore per un’insufficienza renale: scelta che sembrava visivamente più interessante.

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“The Hallow” di Corin Hardy – Conferenza stampa

Il regista inglese Corin Hardy informa il pubblico che “the hallow” è il  corvo  nella cultura folklorica delle favole irlandesi in cui compaiono fate, elfi e spiriti.  Hardy è un grande estimatore degli horror anni ’70-’80: non è un caso che si presenti alla Conferenza stampa con una maglietta su cui appare scritto SUSPIRIA, chiaro riferimento al film di Dario Argento, da cui afferma di sentirsi influenzato dal punto di vista visivo.

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“Ya tayr el tayer” (“The Idol”) di Hany Abu-Assad

Nel programma del TFF alle sinossi dei film sono ovviamente affiancate la durata, il regista e i luoghi di produzione. Quando mi sono soffermato su Ya tayr el tayer (The Idol), prima ancora di leggerne la breve trama, ho visto che Paesi produttori del film sono UK, Qatar, Olanda e Palestina. Quindi si tratta, pensai, di una produzione multinazionale e tra gli Stati coinvolti figura uno tra i luoghi più martoriati della Terra. L’aspettativa era quindi relativamente triste: guerra, sofferenza e soprusi. Continuando a leggere ho intuito che la storia poteva avere dei risvolti originali quando, accanto al nome del protagonista Mohammed Assaf, ho notato le parole “vittoria” e “Arab Idol”.

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The Hallow by Corin Hardy

Article by: Luca Richiardi

Translation by: Kim Turconi

How do a young and loving couple react to the unknown?
The most primordial and essential life events can have serious effects on us, when they are experienced firsthand. The unknown is hidden behind the birth of a child, in the way in which such event changes the perception of the relationship between parents; the unknown can be found in tales and myths, among the folklore that is (or was) transmitted to children.
The Hallow, first feature film of the young British author Corin Hardy, deals with ambiguities and the unknown. The film initially titled “The Woods”, was premiered at the Sundance Festival, where it has been noticed for its qualities.
The Hallow is without any doubt a horror; it proudly represents the genre with all the trimmings and many clichés that are so appreciated by horror fans. We see a little family, happy to start their life together in their new isolated home surrounded by a lively, dark, dangerous forest. There is nothing wrong with using and abusing of such commonplaces, when it is done skillfully. This is what good films do, and they manage to do it in a stimulating and pleasant way.

Good films put the audience at ease by presenting a familiar atmosphere: a relaxed audience can be carried in different directions – even new directions – as long as the film itself is able to respect the audience. This is the case of The Hallow.

As he said himself during the press conference, Corin Hardy is a big fan of horror, especially of the golden age of Italian horror: the ’70s and ’80s variety of Dario Argento and Lucio Fulci – as evidenced by Corin’s shirt of Suspiria, worn with pride.
Hardy is well aware of what it needs to make a good horror film, and he shows great respect for his role models.
The Hallow is born from the legends of European folklore – Irish folklore in particular – and, for this reason, the film is set in Ireland itself. Hardy gathered together changelings, fairies, sylvan monsters, traditional creatures and he reshaped them with his own hands. He also showed to us some preliminary but beautiful sketches of the creatures design.
The Hallow is the result of measured quotations scattered throughout the film, good narrative choices that keep the tension high by playing on ambiguous situations, believable performances from the actors, great soundtrack and the light – almost invisible – hand of the director.

A horror film not to be taken lightly: it will scare, confuse and entertain you, and it will make you desire to watch another Corin Hardy’s film again.

“Les loups” di Sophie Deraspe

Sophie Deraspe, regista canadese già nota al Torino Film Festival per una sua precedente partecipazione in concorso con Un soffio di vita nel 2009, quest’anno presenta nella sezione TFF33 Les loups. Protagonista è  una comunità di pescatori che vive sulla riva dell’Oceano Atlantico ignorando le sovrastrutture e le regole della civiltà metropolitana. La quotidianità che si vive in città è molto distante da questa “utopica” comunità.

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“The Devil’s Candy” di Sean Byrne

Nel profondo Sud dell’america rurale, la mitica terra dei good ol’ boys, insomma in Texas, c’è una giovane e amabile famigliola che cerca casa. Il padre, Jesse, è un pittore, e ha trasmesso la propria passione per la musica metal alla figlia adolescente, mentre la madre lavora in un salone di bellezza; tutto sommato, una normalissima famiglia moderna.

Ma, ottenuta con grandi sacrifici la casa dei loro sogni, essi scoprono che questa è stata il teatro di efferati delitti compiuti da un uomo, un killer deforme obeso modellato sul serial killer John Wayne Gacy (l’attore, Pruitt Taylor Vince, già aveva interpretato un personaggio curiosamente simile ma allo stesso tempo opposto in Constantine). Le voci che lo tormentano lo costringono ad uccidere bambini e giovani ragazzi per soddisfare l’ingordigia del suo demoniaco Maestro, che è, nientepopodimeno, il Diavolo in persona, il quale ha messo gli occhi sulla figlia adolescente di Jesse – quella che lui considera “la caramella più dolce di tutte”.

Sean Byrne è il regista di questo film, un horror in cui la musica fa da protagonista. E’ musica di un genere particolare, quello metal, anzi thrash metal (Metallica, Slayer, Megadeth), e la colonna sonora viene costantemente messa in risalto per dettare i tempi del montaggio e il gusto visivo di scenografie (pareti tappezzate di poster), costumi, magliette e tatuaggi dei protagonisti. Il punto di forza del film è proprio nel soddisfare i fan di questo genere musicale con continui riferimenti ed omaggi ai suoi “mostri sacri”.

Avrei voluto e potuto amare The Devil’s Candy per l’ambientazione, le musiche e la cultura metal e le tematiche sataniste. Ma, purtroppo, non bastano gli ingredienti giusti per preparare un buon piatto. Per fare un buon piatto, come un buon film, ci vogliono soprattutto esperienza, senso della misura, capacità di improvvisare e uscire dal tracciato con sicurezza.

Proprio come accade spesso per il genere di musica che intende omaggiare, questo film finisce per essere ripetitivo, incapace di sorprendere, e soprattutto senza il mordente necessario per impaurire. Non c’è abbastanza drammaticità o tensione, il sangue cola poco, il mostro cattivo è un bambinone che non spaventa – se non quando impugna una pistola per breve tempo maneggiandola proprio come farebbe un bambino, il che crea il momento di maggior disagio dell’intero film.

Le musiche, per quanto belle, sono incapaci di sorreggere la tensione per l’intera durata del film, ed è discutibile che appartengano soltanto al thrash metal, escludendo generi come il death, black e doom che avrebbero reso meglio il senso di malvagità, oppressione e pericolo che la presenza demoniaca/omicida avrebbe dovuto creare. Anche la partecipazione del gruppo musicale Sunn O))) ai sound effects, per quanto apprezzabile, è limitata dalla costante ripetizione del medesimo tema (il sussurro del demonio) che diventa fin troppo familiare e perde rapidamente ogni mordente.

Appaiono insomma troppo presenti la mano del regista, i suoi gusti personali, la sua voglia di far sposare immagini e musiche ad ogni occasione, e il film ne soffre in scorrevolezza, ma non è comunque sconsigliato a priori: ha i suoi pregi e troverà sicuramente un suo pubblico.

“London Road”di Rufus Norris – Conferenza Stampa

Ieri alle 13:00 in Sala Stampa nei locali della Rai, l’ultima conferenza stampa della giornata vedeva protagonista London Road di Rufus Norris. Erano presenti Adam Cork, autore delle musiche, e Alecky Blythe, la sceneggiatrice. Entrambi hanno curato l’allestimento sia del musical che del film. Se il trasformare in musical un evento così tragico come quello di cinque omicidi di prostitute (realmente accaduti a Ipswick) meritava attenzione, ancora più attenzione era necessaria nel momento in cui questo evento veniva trasposto al cinema. “Lo spettacolo nasce come spettacolo teatrale ma questo non ci ha esentato dalla responsabilità di riflettere in quest’opera uno spaccato di vita reale. Normalmente al musical si associa la commedia, numeri di danza, canzoni d’amore e tutta una spettacolarità che invece in London Road non troviamo. La nostra preoccupazione principale è stata quella di essere fedeli e rispettosi nei confronti delle vittime degli omicidi ma anche nei confronti degli intervistati che avevano affidato la loro testimonianza ad Alecky” ha dichiarato Cork.

Il lavoro di Cork e Blythe è stato quello di rendere esattamente non solo le parole dei residenti di London Road ma anche la modalità nella quale erano state espresse. Alecky Blythe adotta infatti, in teatro, la tecnica verbatim: cioè la riproduzione letterale delle dichiarazioni rese da testimoni con tutte le variazioni della voce di chi parla, il tono e le esitazioni. Questo andamento ritmico della voce ha richiesto una strutturazione melodica e ritmica sia per i dialoghi recitati che per i dialoghi cantati: una vera e propria partitura in cui alle parole recitate si è soprapposto un accompagnamento musicale che le ha trasformate in “canzoni”.

Adam Cork ha sottolineato che la transizione dal palcoscenico teatrale allo schermo cinematografico lo preoccupava molto anche in considerazione del successo che aveva avuto il musical, perché temeva la perdita di immediatezza tra gli attori e gli spettatori: “Il cinema ha il suo quarto muro che è lo schermo e temevamo che questo avesse un impatto molto forte sull’interazione tra il pubblico e gli attori. Poi però la riflessione che abbiamo fatto a posteriori è che ciascuno di noi è molto più abituato a vedere una rappresentazione drammatica su uno schermo piuttosto che in teatro: la televisione la guardiamo tutte le sere, a teatro non andiamo tutte le sere, e quindi abbiamo capito che sarebbe stato più facile per il pubblico riuscire ad assorbire una tessitura documentaristica in una forma filmica, più immediata, rispetto a quella teatrale ”.

24/11 - conferenza stampa London Road

Alecky Blythe non è stata solo la sceneggiatrice di London Road per il teatro e per il cinema, ma si è anche occupata di condurre e montare le interviste. Ha raccontato di essersi recata a Ipswich nel 2006, quando erano già stati rivenuti i corpi delle cinque prostitute: “Sono andata con il mio registratore raccogliendo le testimonianze di persone che avevano vissuto, più o meno direttamente, i terribili eventi. Ipswick è una città piccola, la popolazione era scioccata dai fatti che avevano gettato scompiglio in una situazione di apparente tranquillità: c’era un assassino latitante, problemi di droga e di prostituzione”.

A seguito degli omicidi, London Road si è trasformata da strada tranquilla a comunità spaventata che organizza turni di sorveglianza notturna. Nei due anni successivi la Blythe è tornata più volte a Ipswick e il suo interesse è passato dai cittadini di Ipswich ai residenti di London Road, perché nel frattempo Steve Wright era stato arrestato come responsabile degli omicidi e si era scoperto che viveva in quella strada divenuta ormai il punto centrale del “quartiere a luci rosse” di Ipswich. “Il lavoro che ho fatto, in teatro e in cinema, è stato diverso perché la sceneggiatura cinematografica ha esigenze diverse partendo dal fatto che mantengo le parole cosi come sono state dette durante le dichiarazioni. Nel film ho dovuto ridurre i dialoghi perché il racconto avveniva anche per immagini: ho rinunciato a una parte dei dialoghi, ma non ho rinunciato alla caratterizzazione dei dialoghi, al sapore della testimonianza resa” ha precisato Alecky.

Alla domanda se ci fosse un intento di critica verso i residenti che in alcune parti del film pronunciano parole molto dure nei confronti delle prostitute, la Blythe ha risposto che non c’è mai stata nessuna volontà di criticare i residenti, né c’è stata da parte degli stessi protagonisti alcuna percezione di critica nei loro confronti: “Abbiamo cercato di essere il più possibile rispettosi della sincerità delle dichiarazioni rese dai residenti. Quando sono andata la prima volta a condurre le interviste, naturalmente, percepivo i diversi punti di vista e le tensioni che c’erano, ma tutte le loro rivelazioni erano sincere. Le dinamiche e i  conflitti sono via via cambiati nel tempo: questo aveva a che fare con lo scoprire cose che avvenivano nella strada che loro non sapevano stessero avvenendo, e percepivano tutto con un senso di possesso della strada, come se qualcuno si sentisse più o meno titolato a controllarla. La sensazione che probabilmente arriva al pubblico nell’ascoltare le loro dichiarazioni è la difficoltà nel capire quello che loro hanno provato in questo percorso che poi è quello che ha generato certi toni nell’esprimere le loro opinioni. Credo che nessuno di noi che non ha vissuto gli eventi, possa capire cosa significhi avere la vita completamente stravolta”.

Durante la lavorazione del film, ha poi aggiunto Alecky, sia lei che Cork, che Norris, sono stati molto attenti a mantenere aggiornati i residenti sulle scelte effettuate e su come intendevano portare sullo schermo questa vicenda. Hanno ad esempio mostrato loro la location che avevano scelto per il film, una strada molto diversa dalla vera London Road, ma che consentiva al regista di mostrarne l’evoluzione: da strada tetra, squallida, oscura dell’inizio a strada bella e pieni di fiori che vediamo alla fine del film. La reazione da parte di tutti i residenti  è stata molto positiva al punto che per la scena conclusiva del film molte delle comparse erano proprio i residenti stessi.

La reazione, invece, del pubblico italiano, come faceva notare un giornalista presente in sala stampa, è stata anche di riso in alcuni momenti del film. La sceneggiatrice ha risposto che questo è normale, e in parte anche voluto, proprio in virtù del fatto che quando lei lavora ad un progetto  preferisce concentrarsi non sull’occhio del ciclone ma sulle onde che questo propaga, lasciando anche un po’  “respirare” la storia e permettere al pubblico di provare empatia e simpatia per i protagonisti. La volontà di decentrare lo sguardo è anche la motivazione alla base dell’assenza di Steve Wright sia nel musical che nel film: “Il motivo per cui sono andata a Ipswich è perché le vicende che mi stavano a cuore erano quelle della popolazione della città, in particolare dei residenti della strada, per capire come la vita di queste persone sia stata completamente sconvolta  per la casualità di abitare vicino ad un serial killer. In più Steve Wright era già coperto dai media di tutto il mondo. E’ la percezione che mi hanno dato le persone che ho intervistato che volevo rendere in questo lavoro”.

Adam Cork, in chiusura, ha aggiunto che il riso spontaneo che può sorgere guardando il film non è un riso di derisione, ma appunto un riso empatico rispetto a qualcosa che il pubblico riconosce come familiare, una reazione che potrebbe avere chiunque nella medesima situazione.

“La Patota – Paulina” di Santiago Mitre

Santiago Mitre, dopo il successo di El estudiante, vincitore del Gran Premio della giuria al Festival di Locarno 2012, arriva sulla scena torinese con quest’opera seconda, La Patota –Paulina, film in concorso nella corrente edizione del Festival. Al regista è bastata una sola visione del film Patota (1961) di Daniel Tinayre per rimanere colpito dal personaggio di Paulina e accettare di dirigerne il remake.

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“In fabbrica” di Francesca Comencini

Immagini contemporanee degli stabilimenti FIAT, in un notturno soffocato dal rumore dei macchinari. Stacco: secondo dopoguerra, un’intervista al alcuni bambini siciliani: “Dove sono i vostri padri?” Risposta: “In Germania”. Così inizia In fabbrica, documentario di Francesca Comencini vincitore del premio Cipputi nel 2007 come miglior film sul mondo del lavoro. Un altro premio Cipputi è stato attribuito quest’anno alla stessa regista, alla carriera. Continua la lettura di “In fabbrica” di Francesca Comencini

“Oggi insieme domani anche” di Antonietta De Lillo

Antonietta De Lillo è “nata condivisa”, come piace dire a lei. 
Ce l’ha fatto capire con Pranzo di Natale nel 2011 e ce lo ha rispiegato in occasione di questo Torino Film Festival, in una sala del Cinema Massimo senza nemmeno una poltrona  libera.
Oggi insieme domani anche è il suo secondo film partecipato, realizzato selezionando decine di filmini di famiglia, interviste, immagini d’archivio, contributi video improvvisati da chi ha accettato il suo invito a raccontare cos’è l’amore. C’è spazio per tutti, soprattutto per corti d’autore già conosciuti e premiati, come Solo da tre giorni di Yuki Bagnardi e Teresa Iaropoli, che ha vinto MoliseCinema nel 2013.

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In fabbrica (At the Factory) by Francesca Comencini

Article by: Lara Vallino

Translation by: Roberto Gelli

Contemporary images of FIAT plants during the night covered by the machinery’s noise. Break. Second worldwide postwar period: Sicilian children are interviewed about the matter “Where are you dads?” “They are in Germany”.
This is the beginning of Francesca Comencini’s documentary entitled In fabbrica: Cipputi Award winner in 2007 as the best film about work. This year Comencini has received the lifetime achievement award in TFF.
During the Fifties Italy relies on industry, in order to improve working life, which can guarantee a better lifestyle. In a short dialogue between a journalist and a worker we hear “Is it easy to find a job?”, “Yes, there is a lot”, which causes some astonishment among the modern spectators, who got used to the term precariousness. But those years represent the highest point for the local economy, the so-called economic boom: from all the areas of the peninsula people move towards the big northern industries, so as to find a job. “Would you come back home to Naples?”, “No, not even if they covered me with gold”, this is the reply given by a girl defending her new status of worker. The interviewed show themselves to be always satisfied, in a time when job is a source of money and sustenance. What is more, it is something, which people can be proud of. On the other hand, this period also witnesses a strange combination between guaranteed jobs and black market labour, sometimes related to child labour.
Those years give progressively birth to a class consciousness, which results in the first FIAT workers uprising in 1962. If it is true that they get better work conditions, more problems seem to arise like that concerning the housing of people coming from the south. As a female worker stated in 1968: “those who always work by using their arms, lose mental agility, memory and thinking ability”. This situation leads towards new strikes aimed at removing production lines: workers now want to take part at the production activity, not only by tightening bolts, but by putting something of their own into the final products.
With the 80’s the concepts of profit and progress come onto the scene and automation systems are adopted in the firms. Workers form picket lines surrounding FIAT plants 35 days long, the firm replies imposing unemployment insurance. On 14th August, 1980 workers not involved in the measure, together with common citizens, demonstrate in the streets of Turin. It is the so-called “March of the forty thousand”; an invisible crowd of people opposing workers strike and demonstration. The unprecedented event is a sign of a rising individualism and negation of class consciousness. From that time on, there were in fact no strikes anymore.
Nowadays factories are still there but their workers have become a sort of invisible entity: none of them thinks about protesting or striking. There is an emptiness in terms of unity, that same unity which would let the situation change. Above all, none seems to believe in change anymore. A sense of resignation and indifference has spread among workers causing the maintaining of the status quo, which was conquered through efforts during those years, when consciousness of factory workers in Italy was born.

“La felicità è un sistema complesso” di Gianni Zanasi – Conferenza stampa

Mastandrea show

Domenica mattina, alla Conferenza stampa del Torino Film Festival era presente quasi l’intero cast de La felicità è un sistema complesso, tanto che non sono bastati i posti a sedere dietro il tavolo. A parte il regista Gianni Zanasi e la montatrice e produttrice Rita Rognoni, infatti, abbiamo assistito agli interventi di Valerio Mastandrea, Giuseppe Battiston, Hadas Yaron, Teco Celio, Filippo De Carli e Camilla Martini.

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Strange Days by Kathryn Bigelow

Article by: Matteo Merlano                                                                                       Translation by: Lorenzo Matarazzo

  • Los Angeles, December 31 1999, at the dawn of the new millennium tensions and chaos rule a militarized city, slave to a new drug which is powerful and unstoppable: Deck, i.e. other persons’ experiences recorded on mini-disc and directly wired to the brain of the user. Lenny Nero (Ralph Fiennes) is the biggest “experiences’” dealer around, but when he receives a clip containing a Deck fix showing the truth about the homicide of rapper Jeriko One, leader of the rising afroamerican rebellion, his life takes a dangerous turn.

    Set only four years after the moment of shooting, Strange Days predicted the future in a rather disturbing way. Kathryn Bigelow was the first woman director who cleared the Action genre through the customs of male-only directions (masterpieces such as Point Break and Near Dark are works of hers) and gives us the image of a Los Angeles which is nocturnal, violent and full of tensions and contradictions (a big part of the credit goes to the script from James Cameron, Bigelow’s ex-husband) where the characters wander like ghosts searching for Life, not theirs, but other people’s, the one which is “transferred” in the brain like a file from a Usb drive. No one is safe in this world and to escape sadness everyone is willing to do anything. A movie filled with a 90s’ atmosphere, from the aesthetic choices (fast montage and a photography reminiscent of the one used in videoclips) to the Hip Hop, Techno and Post-Punk countercultures, up to the human side, where in a society which lacks direction the only salvation is true love, when it is absolute and romantic. Great soundtrack: Tricky, Deep Forest, Peter Gabriel and Skunk Anansie, to name a few.
    Perfect cast with Fiennes, at ease and troubled at the same time in this scenario, a Juliette Lewis who is more beautiful and reckless than ever and Angela Basset, who carries on the role of tough women so dear to Cameron (Sigourney Weaver in Aliens and Linda Hamilton in Terminator), as well as a disturbing Vincent D’Onofrio, playing a corrupted and psychopathic policeman.

    It is unbelievable how much of the vision from Bigelow and Cameron came true. At the time of production racial tensions had reached their peak because of the police killing of Rodney King in 1992. Today they have emerged again for the same reason in many places around the United States. A militarized L.A. sadly reminds of the big European cities of these weeks. After the 13 November tragedy in Paris and after other similar events, Strange Days appears extremely contemporary. A must see which helps to understand the dark, crazy and “strange” days that we are living in now, year of the Lord 2015.

 

“Strange Days” di Kathryn Bigelow

Los Angeles, 31 dicembre 1999. All’alba del nuovo Millennio le tensioni e il caos regnano in una città militarizzata e schiava di una nuova droga, potente e inarrestabile, “deck”, capace di trasmettere esperienze altrui registrate su mini-disc e collegate direttamente al cervello dei fruitori. Lenny Nero (Ralph Fiennes) è il maggiore spacciatore di “esperienze” in circolazione, ma quando riceve una clip che contiene un deck con la verità sull’omicidio del rapper Jeriko One, leader della nascente rivolta afroamericana, la sua vita prende una piega pericolosa.

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“La decima vittima” di Elio Petri

La decima vittima sarà una satira del mondo attuale, una trasposizione allegorica di aspirazioni di inquietudini dell’oggi dove verranno fustigati certi costumi, la ferocia dei rapporti individuali e collettivi, l’arrivismo sociale dei tempi moderni”   E’ con queste parole che Elio Petri presenta il suo film nel 1964.

La decima vittima, che viene proiettato nella retrospettiva “Cose che verranno”, è tratto dal racconto La settima vittima di Robert Sheckley, edito in Italia nell’antologia Le meraviglie del possibile. E’ sceneggiato tra gli altri da Ennio Flaiano e Tonino Guerra ed è magistralmente interpretato da Marcello Mastroianni e da Ursula Andress. Forse è uno dei pochi film italiani di fantascienza degni di nota: un insieme di commedia e dramma, azione e satira, di surrealismo e pop art. D’altra parte, sono evidenti anche le parentele con la tradizione della commedia italiana. 

La narrazione è fortemente surreale. Siamo in un ipotetico futuro in cui è stato creato il Ministero della Grande Caccia, un organo che controlla l’inseguimento e la lotta tra due antagonisti, un cacciatore e una vittima i quali fanno a gara a chi toglie per primo la vita all’altro. Ricompensa per  il cacciatore che uccide la propria decima vittima è una consistente somma di denaro e la vincita del titolo di decathlon. Una delle sequenze più surreali e avvincenti del film è quella della sfida tra Caroline (Ursula Andress) e Marcello.

Scelta perfetta degli sceneggiatori e del regista è quella di ambientare la sequenza finale a Roma, nel Tempio di Venere. Le rovine dell’antichità diventano il teatro di una vicenda ambientata in un futuro prossimo, per dimostrare che la violenza e il piacere provocato da essa appartengono a tutte le epoche. Questo è un forte spunto di riflessione che il film, con toni leggeri, cerca di sollevare, denunciando il sistema capitalistico nel quale viviamo. Gli uomini sono oggetti facilmente rimpiazzabili da altri, e uccidersi vicendevolmente è un atto legittimo e necessario per la convivenza pacifica. C’è un nemico predestinato, e deve necessariamente essere eliminato. 

Film più che mai attuale, allegoria di una realtà e di una società tipica dei nostri giorni. Emblematica la leggerezza con la quale Marcello ride della (finta) morte di Caroline: “Lei ha perso perché non ha bevuto una doppia razione di tè Ming!”.