Mostro sacro del cinema contemporaneo giapponese, torna anche quest’anno nelle sale cinematografiche sotto la Mole il regista nipponico Sion Sono con la riduzione per il grande schermo di una mini-serie tv targata Amazon, Tokyo Vampire Hotel. Per la prima volta, Sono si cimenta con i mostri della lunga tradizione mitteleuropea, i vampiri, portando la sua personalissima, sanguinolenta visione della creatura che da secoli infesta le paure ataviche dell’uomo.La trama è semplice: una ragazza di ventidue anni scopre, in modo traumatico, di essere l’unica salvezza per i diretti discendenti di Dracula. Per via dell’immenso potere racchiuso nel suo sangue, viene contesa da due clan di vampiri in lotta tra loro da generazioni, in un misterioso Hotel di Tokyo dove sono imprigionati degli esseri umani usati come fonte di nutrimento dai non-morti. Semplice com’è, tuttavia, questa vicenda risente in alcuni punti del passaggio dal piccolo al grande schermo, accartocciandosi su se stessa in una serie di reiterazioni che confondono lo spettatore: a metà film vi starete ancora chiedendo chi siano i “buoni” e chi i “cattivi” e dove questo grande spettacolo grandguignolesco voglia andare a parare.
Ma il punto centrale della questione, ancora una volta presente nel cinema di Sono come in altri cineasti provenienti dal Sol Levante (Takashi Miike per citare il suo diretto competitor) è proprio l’impossibilità di ridurre i personaggi a linee morali precise; nessuno è totalmente buono o cattivo, tutti agiscono per la propria sopravvivenza mentre il mondo in cui vivono cade a pezzi. La trama, così scarna, è un pretesto per mettere in scena violenza sfrenata e fiumi di sangue: un pastiche di vari generi che attinge moltissimo dal filone di exploitation e revanscista, con lolite vampire che impugnano mitragliatrici e katane pronte a fare stragi di teste.
Si tratta di vampiri, creature soprannaturali che potrebbero uccidere con la sola forza dei loro canini, eppure i loro corpi sanguinano esattamente come quelli degli esseri umani e la loro brutalità è espressa nelle scene di combattimento in cui, armati fino ai denti, danno vita a una carneficina che è citazione di Scarface, con tanto di scalinate e tuffo nella fontana. Passa attraverso la rappresentazione del corpo e della carne, trafitta e sanguinante, una critica alla società giapponese, tema caro al cinema di Sono: l’ipocrisia delle istituzioni, la mortificazione dell’individualità, la perdita d’interesse nei confronti delle relazioni interpersonali e del sesso, che in Giappone viene sempre di più rimpiazzato da surrogati virtuali e dalla sekkusu shinai shokogun, la sindrome del celibato. Impressionante, poi, è la performance attoriale di Ami Tomite che nel corso del film trasforma letteralmente il proprio corpo, tramutandosi in animale e affrontando così un altro topos ricorrente, già affrontato da Sono nei due capolavori Suicide Club e Noriko’s Dinner Table, ovvero la ricerca del sé e la volontà di mettersi in contatto con il proprio vero io.
Chi saprà usufruire di quel meraviglioso meccanismo di cui il cinema si serve, ovvero la sospensione dell’incredulità, riuscirà a godere di centoquarantadue minuti di violenza a profusione, condita con quella comicità amara tutta giapponese nei momenti più impensabili per un pubblico occidentale. Il bello del cinema è questo, in fondo: la capacità di un regista nato e cresciuto in una società così distante e, per certi versi, aliena rispetto alla nostra che riesce a trovare terreno comune attraverso l’immagine per strapparci un sorriso.