“Non mi importa se passeremo alla storia come dei barbari.” Queste le parole di Mihai Antonescu, che in seguito alla conquista rumena di Odessa nel 1941, indiceva una pulizia etnica sull’onda dell’entusiasmo popolare. Il film di Radu Jude è una luce proiettata sul passato torbido della Romania, un paese troppo “pieno di sé” (parole del regista) e ossessionato dall’idea di lasciarsi alle spalle la dittatura comunista di Ceausescu.
I Do Not Care If We Go Down in History As Barbarians si apre in un museo di reliquie di guerra, dove la protagonista rompe immediatamente la quarta parete presentandosi agli spettatori. Si chiama Mariana Marin, curiosamente omonima della famosa poetessa rumena degli anni ’80, ed è interpretata da una splendida Ioana Iacob. La sua missione è di mettere in scena un “reenactment” controverso e anticonvenzionale, chiamato “Morte di una nazione”, che evoca provocatoriamente il capolavoro di D. W. Griffith. Invece che rappresentare il solito atto di eroismo patriottico la regista decide di affrontare un tema fino ad ora oscurato dalla storia rumena: il massacro di oltre trentamila ebrei sul fronte orientale. Le dimensioni della barbarie perpetrata – coglietene l’ironia – furono eccessive anche per l’esercito tedesco, che fu costretto a invocare una maggiore professionalità a fronte della selvaggia e sanguinosa improvvisazione.
La regista si trova a dover combattere la censura di un funzionario statale alla cultura e lo sciovinismo incondizionato dei suoi attori. Più volte, infatti, le viene proposto di cambiare tematica al fine di denunciare uno dei numerosi crimini commessi dal governo rosso, ed i suoi attori vestono di buon grado le uniformi naziste mentre rifiutano quelle sovietiche. La difficoltà sta nell’accettare il fatto che la storia non debba essere solamente questione di eroismo o vittimismo, come ci spiega la regista stessa, bensì nell’accettare che il valore didascalico della memoria possa rievocare anche l’atrocità degli errori, affinché non vengano più commessi. Durante i dibattiti eruditi tra il funzionario e Mariana, viene a galla la problematica della fallacia diacronica, dell’eterno ritorno nietzschiano e dell’ineducabilità del popolo. A cosa serve ricordare i nostri errori se continuiamo a ripeterli? Perché un massacro viene ricordato più di un altro? A queste domande nessuno dà veramente una risposta, ma la regista avanza convinta nella realizzazione del suo progetto, trascinata dall’impulso a far luce su un avvenimento che la liberazione dal comunismo aveva oscurato. Infine in una delle piazze principali di Bucarest, nel momento in cui vengono rappresentati la deportazione e il brutale assassinio degli ebrei il pubblico esulta ed applaude, lasciando sbalordita Mariana che vede fallire ogni sua prospettiva didascalica.
Per 140 minuti la protagonista viene seguita costantemente dall’obiettivo mentre sceglie armi da fuoco d’epoca, costumi, rumori di esplosioni, ma anche durante la sua meticolosa ricerca a casa, stesa a letto, nella vasca da bagno o alla sua festa di compleanno. È uno sguardo di tipo documentaristico che cattura momenti di vuoto e discussioni private, pur mantenendo un ritmo vivace e realistico. Le allusioni a Brecht e Truffaut non mancano, come la pioggia di citazioni che animano la disputa tra il funzionario e la regista, vero nucleo del film. È dalle loro conversazioni che si evince lo scopo del film, ovvero la discussione sulle finalità della storia e della memoria. Il dibattito lascia lo spettatore indeciso, incapace di parteggiare né per l’uno né per l’altra, in un circolo paradossale condito da citazioni di Leni Riefenstahl, Friedrich Nietzsche, Ludwig Wittgenstein, Raul Hillberg ed Elie Wiesel.
I Do Not Care If We Go Down in History As Barbarians è un’opera dotata di un punto di vista intrigante e originale. L’idea di affrontare i temi dell’ignoranza e dell’intolleranza attraverso una rievocazione metateatrale è geniale, poiché oltre a sollevare contenuti di rilevanza universale, ne denuncia la complessità di risoluzione.