Il suo nome è Gaspare. Un tipo alto, corpulento, le braccia grosse da pastore e una faccia simpatica. Ha cominciato a lavorare con le pecore a 14 anni e da allora non ha più smesso, neppure nei giorni di festa. D’altronde – come recita una delle sue massime preferite – vivere veramente significa fare, agire, essere in continuo movimento. Il resto, per lui, è soltanto mera esistenza.
Stasi e azione, inerzia ed energia, la speranza verso un futuro diverso e il duro ritorno alla quotidianità del presente. Fra questi estremi si muove la storia raccontata da Paolo Santangelo che, usando i codici ibridi del docufiction, restituisce il cangiante ritratto di un uomo a cui piace definirsi un gigante fra i pidocchi.
I suoi sogni infatti sono grandi come il cielo che domina le campagne di Sciacca, in Sicilia. Lì, fra la sterpaglia ingiallita dal sole e i bagliori del mare all’orizzonte, Gaspare immagina, fantastica, s’illude. Una donna con la quale vivere una vera storia d’amore, dei buoni amici, più soldi per poter viaggiare alla scoperta del mondo. Desideri semplici eppure inarrivabili, complici la cattiveria e la superficialità della gente, che alla sincerità preferisce l’apparenza.
Così, lavorare con gli animali può diventare quasi una colpa, un demerito, un marchio sociale che Gaspare porta con sé sin dalle elementari, quando di lui si rideva per la terra che gli cadeva dalle scarpe. Ma la vita è breve, non c’è tempo per essere tristi – sembrano dire gli occhi vispi del piccolo gigante, che usa la macchina da presa di Santangelo per liberare la forza esplosiva che è in lui.
Siparietti musicali, gag improvvisate, surreali fantasticherie e divertenti remake di celebri scene di film. Gaspare e il suo immaginario monopolizzano l’attenzione del pubblico, che pur ridendo delle sue performance non nasconde comunque una certa ammirazione. È proprio infatti quella innata capacità di rimanere fanciulli, di ridere del mondo prendendolo con leggerezza, che riesce a rendere il pastore di Sciacca un autentico gigante fra i pidocchi.
Più che a un titano, Gaspare sembra però voler assomigliare al tragicomico personaggio di Morgante. Come il poema di Luigi Pulci, il film usa la potenza dell’ironia per smascherare gli angoli oscuri della società contemporanea. La narrazione centrifuga, lo zibaldone di situazioni, il tono semiserio del racconto, il registro stilistico quasi burlesco e canzonatorio; sono questi gli strumenti, originali ed innovativi, che permettono a Il Gigante Pidocchio di penetrare a fondo nel cuore e nella mente degli spettatori.
Splendido docufilm che merita tanto successo, perché parliamo tutti di inclusione, ma alla fine lasciamo indietro chi conduce una “vita difficile” o diversa dalla nostra. Complimenti all’ autore- regista Paolo Sant’Angelo.