La storia si costruisce attraverso le persone. Gli occhi, i volti e i racconti consentono, spesso più di ogni altro fattore, di avvicinarsi empaticamente a una causa, di abbracciarla o quantomeno di comprenderne la profondità. Santiago, Italia, il nuovo documentario di Nanni Moretti presentato come film di chiusura al 36º Torino Film Festival, è un risuonare di voci che, attraverso il montaggio, ricostruiscono un episodio storico, trasportando lo spettatore dal dolore a una sorta di amore compassionevole.
Moretti costruisce un documentario con gli elementi classici del genere: immagini di repertorio che si alternano a interviste. A parlare però non sono studiosi o esperti della cultura cilena, ma unicamente coloro che hanno vissuto in prima persona le vicende di cui si sta trattando.
Il film si propone di raccontare il colpo di stato in Cile dell’11 settembre 1973, e si focalizza principalmente su un gruppo di abitanti di Santiago che riuscì a salvarsi dalla prigionia e dalla tortura rifugiandosi prima nell’ambasciata italiana e successivamente nel nostro Paese, dove gli esuli trovarono una casa, un lavoro e persone che li accolsero senza pregiudizi.
Il racconto si apre con Moretti che osserva da un’alta balconata tutta la città di Santiago, quasi a darci l’idea che questa storia, anche se non lo vedrà fisicamente presente, assumerà un punto di vista particolare, che scopriremo dimostrarsi imprescindibile.
La narrazione è divisa in tre blocchi: il governo Allende; il colpo di Stato; l’aiuto da parte dell’Italia. A essere chiamati in causa sono i rifugiati stessi (che, ormai cittadini italiani, parlano al regista quasi tutti con un perfetto accento di diverse regioni d’Italia), due funzionari d’ambasciata che all’epoca avevano provveduto a dare il loro aiuto, e infine due militari di Pinochet.
Sono inquadrati solo gli intervistati, che talvolta si interrompono a causa di una commozione che, se pur breve, è tanto intensa da coinvolgere lo spettatore. Di tanto in tanto udiamo la voce di Moretti che pone qualche domanda ai protagonisti. Negli occhi degli intervistati si coglie la vera essenza della paura e del dolore quando vengono narrati gli episodi del golpe; ma nel momento in cui il racconto si concentra sugli aiuti da parte del nostro Paese, lo spettatore italiano raggiunge un livello di empatia di rado suscitata da un documentario.
L’Italia diviene, nell’immaginario di chi ascolta quelle voci fatte di ricordi, l’àncora di salvezza di qualcuno. Il Cile è descritto da una delle testimoni come un patrigno che li ha rifiutati, e l’Italia come una brava madre che li ha abbracciati. Siamo chiamati a guardare il nostro Paese con un occhio completamente differente: lo scenario presentatoci è lontano da quello che viviamo nel presente.
Le più interessanti interviste sono quelle ai militari, uno dei quali nega il suo coinvolgimento e mostra difficoltà nel comprendere il concetto stesso di democrazia. L’altro, intervistato nel carcere di Punta Peuco, ammette le sue colpe giustificandole come ordini militari da eseguire: il regista qui si lascia scappare qualche frase in più, tanto da indurre il suo interlocutore a lamentarsi della poca imparzialità dell’intervista. “Io non sono imparziale”, questa la risposta di Moretti, che non lo è mai stato e non vede il motivo per esserlo in questa occasione, in cui per chiunque sarebbe difficile non schierarsi. È questa la seconda ed ultima occasione, nell’intero documentario, in cui il regista si mostra davanti alla camera, in piedi, di fronte al militare Eduardo Iturriaga, come a sottolineare ancora una volta l’importanza del punto di vista.
Si è portati, dopo la visione del film, a guardare al presente e a cercare quell’umanità di cui sembriamo oggi molto più sprovvisti. Un’umanità che non si defila, che risiede nei piccoli gesti e non nella retorica alla quale spesso siamo abituati. Un’umanità che non ha bisogno di chiacchiere, ma solo di qualcuno a cui raccontarsi.
La memoria, per i protagonisti di Santiago, Italia, rappresenta la capacità di tenere in vita un passato lastricato di dolore, la consapevolezza di avere combattuto per la libertà insieme a quel “popolo unito” che gridava in piazze affollate, la gratitudine verso chi ha donato senza chiedere nulla in cambio. Moretti si siede dietro la macchina da presa, si spoglia dei panni di protagonista e tenta di ricostruire un momento, lasciando che l’evanescenza dei ricordi venga sconfitta dalla potenza di ciò che è stato.
Descrizione SUBLIME. SEMBRA DI VEDERE IL DOCUMENTARIO DI MORETTI.