“Lo spirito del tempo”, verrebbe da pensare guardando l’ultimo lavoro di Pietro Marcello che, attraverso la parabola di Martin Eden – tratta dall’omonimo romanzo di Jack London – restituisce un affresco del Novecento quasi sospeso nel tempo e nello spazio. Ormai l’autore ci ha abituati al suo stile: uno stile assolutamente personale, veicolo di un’idea di cinema anticonvenziale e irriducibile a categorie consuete.
“I luoghi che attraversiamo sono archeologie di una memoria, desideri sconosciuti, ricordi proibiti di un mondo scomparso”: se questa frase viene pronunciata dalla voce over in La bocca del lupo – premio per miglior film alla ventisettesima edizione del Torino Film Festival -, è da questo assunto che possiamo partire per provare a comprendere Martin Eden – presentato in concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Marcello infatti, spostando la narrazione a Napoli, in realtà sembra astrarla da qualsiasi coordinata spazio-temporale; egli attinge da numerose fonti, dal materiale d’archivio, dalla grande narrativa novecentesca, ma richiama anche le diverse ideologie che hanno caratterizzato il secolo scorso, e fa reagire tutti questi elementi tra di loro, creando così un una parabola universale che attraversa idealmente tutto il Novecento per arrivare fino ai giorni nostri. E Martin Eden non è solo il protagonista del film, ma l’incarnazione di un’ansia e di una tensione collettiva del Ventesimo Secolo.
Ma parabola su cosa? Tra le tante cose, sull’arte e sulla conoscenza, sul potere della cultura, che diventa tuttavia anche strumento di analisi della società, quindi visione politica e infine posizionamento di se stessi nei confronti del mondo. In questo modo Martin Eden, marinaio che vive e frequenta ambienti proletari o sottoproletari, tenta un riscatto personale attraverso l’amore e la scrittura; ma, trovandosi di fronte al fallimento dei propri ideali non riesce ad andare oltre a se stesso e al proprio Io. L’immagine finale, in cui il protagonista, da solo, affronta ancora una volta il mare – forse per l’ultima volta – sembra suggerire proprio un naufragio, la deriva del pensiero, ma anche della disillusione che conduce in un vicolo cieco.
Il film ha una forza e una coerenza stilistica che affascinano e incantano, in cui le immagini di repertorio sembrano porsi in maniera assolutamente naturale all’interno della narrazione, al punto da non riuscire a distinguerle da quelle girate dal regista; si crea così un cortocircuito tra presente e passato, tra le diverse epoche che il film attraversa: la stratificazione, o l’archeologia, del tempo e dello sguardo, della memoria. Tuttavia sembra che lo stile di Marcello, pur coerente con le sue opere precedenti, sia più docile e assecondante, complice anche una sceneggiatura che, soprattutto nella seconda parte, rischia di cadere nel didascalismo. Infine la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile a Luca Marinelli, impone una riflessione sull’attore. Non vi è dubbio che Marinelli sprigioni una forza attrattiva che potremmo dire magnetica, calamitica, modulando e cambiando registro a costo di risultare a volte sopra le righe. Se negli ultimi anni si è imposto come uno dei volti-simbolo di un rinnovamento e di un ricambio generazionale nel parco attoriale italiano, l’impressione è che si sia già adagiato e proponga spesso personaggi simili tra di loro, cui basta il suo volto perché lo spettatore li comprenda.
Un film imperfetto, quindi, ma che bisogna difendere per la sua libertà, il suo porsi fuori dagli schemi: con un po’ di campanilismo, dobbiamo andare fieri di un autore come Marcello, di cui il nostro cinema ha assolutamente bisogno; un autore che propone un modo di fare cinema personale e ambizioso che, interessandosi alla realtà, non ha paura di abbandonarsi al lirismo. D’altronde, come insegna Sarchiapone, il bufalotto campano di Bella e perduta, “i sogni e le fiabe, anche se irreali, devono raccontare la verità”.