L’ultimo piano è un film collettivo – firmato da nove registi (Giulia Cacchioni, Marcello Caporiccio, Egidio Alessandro Carchedi, Francesco Di Nuzzo, Francesco Fulvio Ferrari, Luca Iacoella, Giulia Lapenna, Giansalvo Pinocchio, Sabrina Podda) con la supervisione artistica di Daniele Vicari e prodotto dalla Scuola d’Arte Cinematografica “Gian Maria Volonté” con Vivo film – che non ha paura di osare e che non soffre di alcun complesso di inferiorità nei confronti dell’industria cinematografica, ma anzi la sfida. Nonostante qualche imperfezione, questo film d’esordio non ha nulla da invidiare a molte altre opere prime italiane e nemmeno a tante produzioni nostrane, spesso stereotipate, che percorrono un canovaccio e una strada ormai scontata e ripetitiva.
Il pregio e il difetto al tempo stesso de L’ultimo piano è il proporsi essenzialmente come un film generazionale da più punti di vista. Innanzitutto perché, in questo modo, sembra quasi congenitamente relegarsi in uno spazio che non gli appartiene, nella nicchia del diploma-film: per fugare ogni dubbio, L’ultimo piano non è un film amatoriale, ma un’opera che merita di essere vista e che può insegnare la volontà e il coraggio di una generazione nel fare cinema.
A tale proposito viene in mentre un altro film collettivo, Il caricatore (di Eugenio Cappuccio, Massimo Gaudioso e Fabio Nunziata), che stigmatizza ironicamente la smania per il cortometraggio tipica degli esordienti negli anni Novanta, nel cruciale periodo di passaggio dalla pellicola al digitale. Del film del 1996 appare paradigmatica la scena della partita di calcio, cui i protagonisti – giovani registi esordienti che si confrontano con l’industria cinematografica rappresentata da Arcopinto e da Procacci – sono costretti a partecipare per cercare dei finanziamenti per il loro film. Come allora fare squadra era essenziale per vincere le resistenze dell’industria, anche in e per L’ultimo piano quello che più colpisce è la capacità di un gruppo di giovani cineasti di unirsi per raggiungere un traguardo comune. Così nell’ultima sequenza del film tutti i personaggi fanno squadra superando i problemi personali per risolvere la narrazione e ritrovare Adriano, il bambino che era scappato da casa.
L’altro aspetto che fa di L’ultimo piano un film generazionale è il proposito di raccontare una generazione, che è poi, più o meno, la stessa di cui i registi fanno parte. Tuttavia risulta più convincente il ritratto – e lo scacco – della generazione precedente, rappresentata da Auré, l’unico personaggio che si evolve, laddove il cambiamento dei giovani sembra troppo improvviso e poco giustificato. Le quattro storie sembrano unite soltanto dal fatto che i protagonisti condividono l’appartamento, ma non sembrano racconti o narrazioni condivisi e il film, per seguirle tutte, non prende mai una reale direzione; in questo modo anche i numerosi, forse troppi, temi trattati sembrano più che altro espedienti per tratteggiare i differenti personaggi e rimangono problemi isolati.
Nonostante questi difetti, più che comprensibili per una sceneggiatura scritta a trentaquattro mani, il film rappresenta anche un atto d’amore proprio nei confronti del cinema. In un periodo storico in cui produrre o girare un film è diventato più facile, anche a livello amatoriale, questi nove ragazzi prendono le distanze dall’amatorialità per girare, coraggiosamente, un Film.
Elio Sacchi