Già protagonista del film in concorso Raf (Harry Cepka), Grace Glowicki partecipa al Torino Film Festival anche in veste di regista con il suo primo lungometraggio, Tito.
Tito (interpretato dalla stessa Grace Glowicki) è un disadattato, un emarginato che, dopo aver subito una violenza, vive isolato nella sua casa arredata con un mobilio essenziale, perseguitato da suoni terrificanti e immaginari mostri che sembrano essere in agguato ovunque lui si trovi, tormentato da un malessere fisico che gli impedisce anche di mangiare. All’improvviso appare nella sua casa un “friendly neighbour” (Ben Petrie) – come viene presentato nei titoli di testa – che parla senza sosta, lo nutre, gli fa assumere sostanze stupefacenti e sembra, per un istante, sottrarlo alla sua solitudine e paura, prima di rivelarsi come un altro dei suoi carnefici.
Grace Glowicki riduce all’essenziale la trama, spogliandola di qualsiasi orpello, per lasciare spazio al disagio di Tito e al rapporto di ripetitiva routine: i due strani amici sono gli unici personaggi dell’intero film, mentre le altre figure che compaiono sullo schermo non vengono mai mostrate in volto.
L’interpretazione della regista, che si cimenta anche come attrice nel ruolo del protagonista, è davvero notevole. Come dichiarato in conferenza stampa, Glowicki ha scelto di recitare la parte di un uomo per attuare un gioco di inversione di ruoli: l’obiettivo era riappropriarsi delle paure e delle ansie femminili di cui troppo spesso attori e registi uomini si sono fatti interpreti, invalidandole.
Per esprimere il malessere di Tito, la regista si serve di codici espressivi che richiamano, per certi versi, l’estetica del cinema muto, specie nell’uso del corpo come veicolo espressivo.
Glowicki ha curato in maniera minuziosa la propria performance: per interpretare un individuo fisicamente deformato dal trauma e dalla paura, ne ha imprigionato la figura in pose contorte e innaturali, quasi mostruose. La musica è volutamente intrusiva e disturbante e, dato il quasi mutismo del protagonista, il film si svincola dal peso delle parole lasciando all’elemento sonoro il compito di far comprendere al pubblico le emozioni violente ed esagerate di Tito, sia quando è terrorizzato, sia quando le sostanze assunte sembrano donargli un piccolo sollievo dall’ansia.
Altro richiamo al cinema muto sono gli intermezzi notturni, in cui il protagonista è imprigionato in una dimensione onirica e illuminato da una luce gialla che cancella ogni altro colore, incorniciato da una sorta di mascherino che elimina qualsiasi elemento circostante.
Nel finale si profila un’enigmatica sovrapposizione di vittime e carnefici, emblematico climax dell’ambiguità e del turbamento che caratterizzano l’intero film.
Silvia Gentile