“Tu hai una voce che potrebbe portarti ad Oz”. Quella di L. B. Mayer sembrava una promessa, invece è stata una maledizione. Basato sullo spettacolo teatrale End of the Rainbow di Peter Quilter, il film di Rupert Goold è un biopic che racconta la vita di Judy Garland attraverso due livelli narrativi, l’inizio della sua carriera sul set de Il mago di Oz (Victor Fleming, 1939), che girò quando ancora non aveva 17 anni, e i suoi ultimi concerti a Londra nel 1969.
Nel freddo inverno londinese la giovane e graziosa Doroty dalle scarpette rosse ha lasciato il posto a una donna profondamente segnata da quell’infanzia perduta e dal distacco dai figli. Un’artista in ristrettezze economiche, la cui voce non è più quella di una volta, che arriva in ritardo e si mette a litigare con il pubblico.
L’intero film è costruito sulla presenza di Renée Zellweger, la cui metamorfosi è totale. L’attrice diventa Judy attraverso il trucco, la postura, la voce (parlata e cantata) ma, soprattutto, attraverso la messa in scena dei turbamenti profondi, delle ferite, dei traumi, in una performance che effettivamente rende degno di nota un film altrimenti trascurabile. È infatti innegabile che Judy sia completamente sulle spalle della sua interprete, che riesce a reggere tutti gli insistiti primi piani con cui viene raccontata la tristezza di Garland, in una continua altalena tra palcoscenico e vita privata. Altrettanto evidente è l’intento del regista di celebrare una vera e propria icona americana, un simbolo per la comunità LGBT e un mito per chiunque voglia fare spettacolo.
Il personaggio viene dunque scritto con precisione: il desiderio di accettazione, la paura di fallire e di essere dimenticati, il bisogno di essere apprezzata ed amata, la voglia di continuare a esprimere la propria arte e l’immenso e innegabile talento che ne ha costituito anche, e purtroppo, la condanna. Sfruttata da subito come una miniera d’oro, alla piccola Judy venne rubata l’adolescenza e, in definitiva, la possibilità di avere una vita normale. Questa normalità vanamente agognata l’ha portata a sposarsi cinque volte, all’abuso di alcol e droghe che l’hanno consumata fisicamente. Un bisogno spasmodico di essere autentica, una madre e una persona normale circondata dagli affetti familiari che invece l’ha intrappolata in un’estrema solitudine.
Il film vuole quindi essere non solo un biopic, ma una denuncia di una Hollywood che per fortuna oggi sembra essersi allontanata da quei modelli produttivi. La Hollywood degli anni d’oro che sfornava stelle e divinità dello show business, ma che spesso si rivelava una trappola oscura in cui molti, tra cui anche la piccola Garland, sono caduti. Judy è la storia di un’eroina tragica alla fine della sua parabola esistenziale. Lasciata completamente sola, la fidanzatina d’America ancora cerca la strada di casa: un posto che in vita, forse, non ha mai trovato ma che le è stato offerto da quel pubblico che la amava tanto da alzarsi in piedi e cantare per lei, anche quando la sua voce la stava abbandonando.
MARIA BRUNA MOLITERNI
La valutazione obbiettiva porta a vedere un film non accattivante pur di assistere ad un’interpretazione che sembra essere davvero magistrale.