“LUCKY” DI NATASHA KERMANI – “REGRET” DI SANTIAGO MENGHINI

“Go it alone” (“cavarsela da soli”): questo è il titolo che la giovane scrittrice May Ryer (Bea Grant) sceglie per il suo più recente manuale d’auto-aiuto. I suoi libri non hanno un grande riscontro e gli affari vanno a rilento, ma questo risulta essere l’ultimo dei problemi per May. Un inquietante uomo mascherato irrompe ogni notte nella casa in cui la scrittrice vive con il marito, tormentando la donna fino allo stremo delle forze. Nessuno, però, sembra dare rilevanza a questi avvenimenti, né il marito – accondiscendente e insensibile – né la polizia, abbandonando May al suo destino.

Il titolo del manuale riassume perfettamente la difficile vicenda vissuta dalla protagonista, immortalata dalla giovane regista Natasha Kermani, nel suo nuovo lungometraggio Lucky, presentato fuori concorso alla 38° edizione del Torino Film Festival. Il film colpisce particolarmente poiché ricco di originali soluzioni stilistiche e narrative che gli conferiscono un’anomala posizione all’interno della famiglia del cinema femminista militante: la regista non si limita a rappresentare il doloroso tema della violenza domestica – e di genere – attraverso il cliché della materializzazione della paura in un nemico in carne ed ossa, ma propone una seria riflessione sulle ferite provocate dalla sistemica violenza del patriarcato.

L’uomo mascherato rappresenta, da una parte, un pericolo fisico e reale per May, dall’altra è possibile interpretarlo come un’assenza problematica: la mancanza di un nome proprio che identifichi la violenza di genere in tutte le sue orrende sfumature. Per fortuna Kermani illustra, attraverso un’elegante messa in scena, accompagnata da dialoghi asettici e inverosimili, l’attiva resistenza del genere femminile, astraendo i personaggi da una posizione di blando vittimismo.

Il film si configura, dunque, come una brillante ed efficace decostruzione del più classico degli slasher movies: un folle e irrazionale assassino invece che celare dietro la maschera un volto sfigurato da un passato doloroso, rivela la drammatica impossibilità, da parte delle donne, di individuare un nemico preciso. L’ultimo lungometraggio di Natasha Kermani dimostra che nei confronti di questi abusi sistematici “cavarsela da soli” non basta: più che un monito Lucky è una chiara presa di coscienza di un universale e sanguinoso problema.


Meritevole d’attenzione è sicuramente Regret, ultimo terrorizzante cortometraggio del regista canadese Santiago Menghini, proiettato dopo l’opera della Kermani.

 Il film narra la frenetica nottata di Wayne che, dopo la morte del padre, viene assalito dai rimpianti e dal dolore sotto forma di un’orrenda creatura scheletrica da cui il protagonista deve fuggire.

In tempi ovviamente più ristretti rispetto a Lucky, Menghini si trova davanti a un bivio: da un lato la tentazione di ricorrere all’efficace ma banale soluzione del jumpscare, dall’altro costruire intorno alla vicenda una raggelante suspense in modo da tenere incollato – perversamente – lo spettatore allo schermo. Per fortuna il regista percorre la seconda strada, scegliendo di eliminare il fattore “spavento” dall’equazione per virare sulla ben più agghiacciante sensazione di eeriness che permea l’intero film. Regret, a differenza di Lucky, tratta il tema dell’assenza d’identità non più come un agente violento e irrazionale, ma come una perturbante presenza che si aggrappa alla fragile psiche di un uomo distrutto. Una menzione speciale va fatta all’ottimo design della creatura misteriosa e alla bravura con cui Menghini realizza, a pochi minuti dall’inizio del film, un terrificante campo-controcampo che assicura notti insonni.

Luca Giardino

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