Una lenta panoramica accarezza la vastità del paesaggio montano dell’Appalachia; in lontananza una flebile esplosione destabilizza per pochi secondi la pace di quella visione paradisiaca. Tutto tace. Si apre così The Evening Hour, il nuovo lungometraggio di Braden King che, dopo nove anni dal successo di Here (2011), ritorna adattando per il grande schermo l’omonimo romanzo di Carter Sickels. Nella sua nuova opera, King privilegia uno sguardo più realistico sulla vita della periferia americana, depotenziando i classici stilemi narrativi del noir ed instillando, al contempo, una profonda riflessione sul destino di un’intera generazione: giovani disillusi nei confronti di un futuro inesistente, costretti a subire la pressione di un mondo che non concede alcuna via di fuga, se non quella di annegare nell’abisso della droga e della violenza.
Cole Freeman (Philip Ettinger) lavora come collaboratore sanitario a Dove Creek, una piccola cittadina del West Virginia in cui il protagonista è nato e cresciuto. Oltre al suo impiego ufficiale, Cole gestisce un piccolo traffico illegale di antidolorifici al fine di guadagnare qualcosa in più. La situazione si complica quando il suo amico d’infanzia Terry Rose (Cosmo Jarvis), oltre a nutrire un particolare interesse per Charlotte (Stacy Martin), la ragazza di Cole, si dimostra intenzionato a produrre e spacciare sostanze più pesanti, creando un conflitto di interessi con il pericoloso trafficante locale Everett (Marc Menchaca).
Così come in Here, anche in The Evening Hour l’elemento paesaggistico domina l’intera vicenda. In quest’ultima opera il paesaggio è però inteso come una cornice che cristallizza una realtà statica e senza prospettive future, a differenza del film precedente in cui il landscape armeno era un elemento dinamico e un punto di contatto tra due anime. Il grande pregio di King è quello di mettere in risalto l’aspetto claustrofobico dell’ambiente appalachiano attraverso precise soluzioni registiche: alternando, per esempio, le inquadrature statiche degli elementi naturali ai fluidi movimenti di macchina che seguono i personaggi.
Anche il viaggio, aspetto fondamentale dell’opera precedente, viene affrontato in modo diverso. Non si tratta più di un percorso fisico in uno spazio naturale che offre nuovi orizzonti, quanto di un viaggio introspettivo, che permette la ricerca di un proprio posto in una realtà ostile. I confini di Dove Creek sono un vero e proprio limite che non va superato: nessuno sembra riuscire realmente ad abbandonare un paesino da cui più si cerca di allontanarsi, più si cade nel baratro. Illuminanti sono, a questo proposito, le parole di Terry quando osserva che “[Dove Creek] è un buco molto profondo, tutto qui”.
Con una regia contenuta ma efficace, accompagnata da una buona sceneggiatura di Elizabeth Palmore e da buone scelte di cast , Braden King mette in scena la dura vita di una piccola comunità a cavallo tra due epoche: da una parte la generazione dei vecchi che si limita a guardare il mondo dalla soglia di casa propria, dall’altra i giovani, privi di una direzione, perennemente in bilico tra precariato, disoccupazione, tossicodipendenza, permeati da un generale senso di inadeguatezza.
Luca Giardino