“FAYA DAYI” DI JESSICA BESHIR

Una leggenda sufi etiope vuole che la pianta del khat, le cui foglie rilasciano sostanze stimolanti una volta masticate, venne scoperta durante la ricerca dell’acqua della vita eterna. Oggi il khat costituisce la coltura commerciale più redditizia d’Etiopia: la sua assunzione trascende la mera esperienza fisica, si presta invece a pratiche simposiali che trovano giustificazione nel tramandarsi di miti religiosi. A partire da questo racconto, Faya Dayi, in concorso internazionale al festival Visions du Réel, propone un percorso spirituale che segue la montuosa Harar e la cultura del khat, masticato per secoli per potersi avvicinare al proprio Dio, come anche per far scorrere più rapidamente i giorni di fatica e monotonia.

Un ramo della pianta di khat

Liberi da ogni struttura spaziale e temporale, i frammenti di routine della comunità di Harar portano con sé il peso di un passato ancestrale, che si manifesta dal lavoro nei campi, ormai un esercizio di memoria muscolare, alle pratiche di riallineamento spirituale. Le diverse generazioni sono tutte portatrici dello stesso trauma sociale: gli estenuanti sacrifici ricompensati con il solo mantenimento di una condizione di stasi. I più anziani si abbandonano al consumo ostinato del khat, che accompagna la preghiera individuale e i rituali sociali. Collezioni di ricordi e legami di sangue non frenano invece nei più giovani il desiderio di liberarsi dall’oppressione della propria terra. Una terra non più solo casa, ma anche fango, destinato a far sprofondare ogni speranza. Come nella leggenda, il viaggio alla ricerca dell’acqua della vita eterna – per scongiurare la paura della morte – viene ricondotto, dai più coraggiosi, alla traversata delle acque del Mediterraneo, verso la possibilità di un nuovo inizio in Europa. 

Raccolta del khat

Il lungometraggio di debutto di Jessica Beshir è un forte esercizio di sorveglianza poetica: non pone domande né propone risposte, non condanna e non celebra, tesse invece un flusso di immagini, catturando la quotidianità di un popolo nei suoi momenti più meditativi. Dove può sembrare avaro di informazioni, compensa evocando in modo sensorialmente stimolante le radici culturali della regista stessa.

Noemi Castelvetro

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *