“TRE PIANI”, DI NANNI MORETTI

Tre piani, di Nanni Moretti. Tre piani, di lettura. Uno impilato sull’altro, gerarchicamente.

Piano terra. Siamo di fronte a un’epopea melodrammatica con tutti i crismi. Personaggi che muoiono, amano, uccidono, partoriscono, crescono, litigano, si appacificano, invecchiano, si redimono. Alcuni vanno addirittura in Erasmus in Spagna. Un self-service della commozione: possiamo piangere, gioire, adirarci. Individuato uno specifico elemento drammatico prediletto, basterà forzare la stimolazione delle ghiandole lacrimali. Però qualcosa non torna. I personaggi dell’ultimo film di Moretti sembrano muoversi in un clima rarefatto, straniante. Financo ridicolo. In una regione misteriosa tra Un posto al sole e i piazzali metafisici di De Chirico.

Animati dal dubbio, saliamo dunque al primo piano. Forse siamo di fronte a un film-saggio più che a un film narrativo. Un trattato sull’impossibilità della trasposizione cinematografica di un’opera letteraria. Nello specifico, del romanzo omonimo di Eshkol Nevo. Guardare Tre piani è come assistere alle prove di Yūsuke Kafuku (protagonista di Drive My Car, dir. R. Hamaguchi, 2021, interpretato da Hidetoshi Nishijima) per l’allestimento teatrale di Zio Vanja, di cui è regista: ai suoi attori Yūsuke non chiede che di leggere il testo, senza tono, intenzione, interpretazione. Fredde parole sottratte all’espressività che è loro intrinseca, o che costituisce il loro potenziale. Mero, freddo, testo. Come se la matrice testuale divorasse in principio ogni tentativo di una sua spettacolarizzazione, affogandolo in un abisso d’inchiostro. Così in Tre piani, ove gli attori paiono muoversi in uno stato di inerziale passività al testo: dialogano meccanicamente, si adirano a orologeria (Scamarcio), svengono in maniera platealmente simulata (Buy), perdono il senno (quasi) senza alcun preavviso (Rohrwacher). Il montaggio incede con la stessa, programmatica, freddezza: le inquadrature, più che susseguirsi, si giustappongono artificiosamente. Il tutto condito da un sano, pimpante fisarmonicismo (alla colonna sonora il fedelissimo Franco Piersanti).

Il terzo piano è una soffitta tenebrosa, umidiccia. Permeata da un sentimento terrorizzante: Tre piani non è un film. È un’operazione machiavellica e malefica, progettata a tavolino da Moretti perseguendo un unico scopo. Normalizzare il proprio stile recitativo, apatico, incredibile (nel vero senso della parola), costruendo intorno ad esso un’enorme impalcatura che lo giustifichi. Piegando lo “star system” italiano (Scamarcio, Buy, Rohrwacher) a un nuovo standard robotico. Nell’eternità già riecheggia un iconico e atonale «Cazzo, Charlotte!».

Niccolò Buttigliero

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