Il titolo della masterclass del regista israeliano Avi Mograbi, Breve manuale per liberare il cinema dal reale – incursioni documentarie di Avi Mograbi, è decisamente esplicativo. Riflette quello del suo film presentato nella sezione TFFDoc / Fuori concorso: The First 54 Years – An Abbreviated Manual for Military Occupation, e sottende il medesimo approccio: partire dalle immagini specifiche – nel caso della masterclass i lungometraggi Z32 (2008) e The First 54 Years, nel caso del film l’archivio di interviste dell’associazione Breaking the Silence – per ricavare nei rispettivi campi di pertinenza – la strategia militare e il cinema documentario – delle riflessioni più ampie e applicabili in contesti differenti.
Attraverso questo processo empirico infatti, in The First 54 Years il regista dall’osservazione delle molteplici testimonianze di partenza, ricava un manuale sui metodi di occupazione militare. Allo stesso modo, all’interno della masterclass, il regista si è servito dei suoi due film come esempi paradigmatici per dimostrare le molteplici possibilità del cinema del reale. Anche se i due documentari sono stati sviluppati dallo stesso materiale di partenza, seguono due vettori opposti giungendo a due risultati completamente diversi. Z32 è un documentario basato interamente sul processo di autoriflessione da parte di un reduce circa le azioni commesse durante il servizio militare. In The First 54 Years invece, Mograbi rifiuta qualsiasi possibilità di elaborazione del trauma, concentrandosi solamente su testimonianze che espongono fatti e meccanismi dell’occupazione israeliana. Come accennato precedentemente, il materiale di partenza è costituito, in entrambi i casi, dalle testimonianze dei soldati raccolte dall’associazione Breaking the Silence, fondata dallo stesso Mograbi con l’intento di raccontare le modalità e le brutalità dell’occupazione israeliana in Palestina, per mantenere viva la memoria di quanto i governi che si sono succeduti dal 1967 in poi hanno cercati di cancellare.
Z32 nasce con l’idea di realizzare un film molto semplice che racconti la testimonianza di un soldato pentito dopo aver preso parte a un’azione di rappresaglia contro dei poliziotti palestinesi. La possibilità di costruire un film incentrato sulle emozioni e le riflessioni del soldato viene ostacolato dalla volontà dell’uomo di non essere ripreso in volto. Il regista racconta quindi di aver avuto l’intuizione di coprire il viso del reduce con una maschera 3d digitale, permettendogli così di mostrare occhi e bocca e non perdere le sue emozioni. Nonostante questa soluzione, il reduce fatica a esprimersi liberamente. Mograbi decide allora di consegnare una videocamera al soldato per permettergli di intraprendere un processo di riflessione autonoma sulle proprie azioni. Fondamentale diventa allora la figura della fidanzata del reduce che partecipa alle riflessioni dell’uomo facendo da contraltare al suo tentativo di autoassoluzione. Al medesimo tempo, è lo stesso regista a interrogarsi sui dilemmi etici che riguardano il proprio film: è giusto nascondere un assassino all’interno della propria opera? È giusto sfruttare la sua storia? Mograbi non ci racconta queste riflessioni ma le presenta cantando, quasi a utilizzare il musical come maschera per filtrare la propria autoriflessione, in modo analogo a quel che succede al suo protagonista.
The First 54 years si muove invece in direzione opposta. Qui Mograbi utilizza direttamente una serie di testimonianze raccolte dall’archivio di Breaking the Silence, con l’intento di realizzare un film costituito dal susseguirsi di sole interviste. Mograbi si focalizza dunque qui su racconti di azioni, procedure, ordini e meccanismi delle operazioni militari israeliane in Palestina, guidando lo spettatore al loro interno come esperto di tattica militare. Il regista, nei panni di moderno Machiavelli, recita i passi di un immaginario manuale di occupazione militare che utilizza il caso israeliano – dall’occupazione della Cisgiordania nel 1967 passando attraverso la prima e la seconda Intifada – per sostenere le proprie tesi. Parole dure pronunciate con un tono sprezzante che contrasta con l’immagine del Mograbi persona creando un cortocircuito che diventa potente attacco allo stato israeliano e che conferma, una volta di più, la capacità del regista di interpellare il reale e interiorizzarlo, riuscendo ogni volta a declinarlo in maniera diversa (ironica, cinica, sperimentale) ma sempre funzionale a un’analisi critica del mondo.
Cristian Cerutti