Dopo Stray Dogs (2013), film che ha richiesto uno iato lungo sette anni per vedere assorbita l’eco del suo silenzio, Tsai Ming-liang torna al lungometraggio di finzione con Days (2020). Nel tempo intercorso, una sottile metamorfosi ha attraversato sotterraneamente il suo fare cinema: se in Stray Dogs si può rilevare una radicalità espressiva che – oltre a riaffermare – potenzia i tratti distintivi di Tsai, in Days nessuna forma resiste. Se non come riverbero simulacrale di quanto è stato, formalismo ingenerato nell’occhio di chi guarda.
Long takes e piani sequenza a camera fissa; assenza pressoché assoluta di dialoghi; rumorio ambientale che ora va intensificandosi, ora sfuma nel silenzio. Solitudini erratiche, ritmo ieratico. Tutti i topoi grafici e para-narrativi di Tsai all’appello. Non è però tanto fertile compiere una ricognizione delle ricorrenze stilistiche, quanto chiedersi se il cineasta stia cercando di perfezionare un’estetica o piuttosto di abbandonarla definitivamente, liberando il suo cinema in un atto di osservazione a-interpretativa. E liberandosi del ruolo di regista inteso come “orientatore” di sguardi, vigile urbano dell’occhio. Accanto alla staticità classica dei quadri, in Days fanno la loro comparsa ex abrupto movimenti violenti, nevrotici; inquadrature disordinate, sporche. Incursioni sporadiche, fulminanti, che minano l’idea di uno stile coeso e inscalfibile, di un controllo impenetrabile. Centoventisette minuti di nulla stilistico, in cui pure, ancora, qualcosa accade.
Laddove cede l’auctoritas autoriale, si aprono nuovi orizzonti di libertà spettatoriale. In virtù della sua durata e della sua staticità, ogni inquadratura di Days è un persistente labirinto ottico da esplorare, ispezionare in ogni suo anfratto. La dilatazione temporale e la continuità spaziale privano paradossalmente l’immagine di un centro: solchiamo il volto di Lee Kang-sheng per passare – mossi dall’immobilità – alla puntigliosa perlustrazione del suo corpo, dell’ambiente che lo circonda, degli oggetti che lo abitano. Aprendosi e chiudendosi con un bianco accecante – il bianco dello schermo su cui nulla è proiettato – Days conduce Tsai Ming-liang in una dimensione anti-estetica, in cui le forme non si istituiscono che nella soggettività del singolo, svanendo e riapparendo a ogni visione, a ogni nuovo percorso ottico/uditivo che verrà tracciato. Le immagini del suo ultimo film, prive di quell’opacità opprimente che caratterizza la comunicazione, sono specchi in cui contemplare il percorso calligrafico che è il nostro stesso sguardo a disegnare.
Niccolò Buttigliero