Presentato in anteprima nella sezione Encounters dell’ultima Berlinale, dove ha vinto il Premio Speciale della Giuria, Taste, primo lungometraggio del regista vietnamita Lê Bao, approda al TFF39 nella sezione Fuori concorso/TFLAB.
La vicenda, quasi smaterializzata, è ambientata a Ho Chi Minh City, in Vietnam, e ha come protagonista Bassley (Olegunleko Ezekiel Gbenga), un ex calciatore nigeriano che, a seguito di un infortunio alla gamba, perde il lavoro. Insieme a quattro donne (Thi Minh Nga Khuong, Thi Dung Le, Thi Cam Xuan Nguyen, Thi Tham Thin Vu) si rifugia in una dimora metafisica e primordiale in cui la realtà e la surrealtà si confondono e i gesti più comuni si caricano di simbolismo e muta sacralità. Parlare di una narrazione in termini classici, in realtà, nel caso di Taste, non è possibile, così come provare a definire i personaggi rischia di essere una sovra-interpretazione. La narrazione, la “classica” trama, esiste ma è percepibile solo nel suo costruirsi in forma di visione e i “personaggi” si collocano all’interno di essa come dei simulacri.
Lê Bao orchestra le sue immagini come miraggi vividi: i corpi abitano le stanze scarne di questa dimora mentale secondo un principio compositivo, sono scolpiti dalla luce e sembrano emergere da un chiaroscuro arcaico. Bassley e le quattro donne sono figure ctonie, vivono in penombra e conservano una ritualità originaria: cucinare, mangiare, lavarsi e massaggiarsi sono azioni che vengono reiterate come in una silente liturgia. Perfino il sesso trascende ogni tratto umano e animale per diventare un’unione di corpi e carne.
Il film, dunque, è in grado di creare un ambiente denso di immagini in cui la funzione della parola – come quella dello sguardo, sempre collocato altrove, verso un indecifrabile controcampo – è quasi superflua perché riassorbita nei corpi nudi che sono di per sé materia senziente. Del resto, è proprio questo dato materico a informare e uniformare il fisico umano – colto nella sua forma più tonica nella figura di Bassley e in quella sfaldata e cadente delle donne – a quello animale del maiale e a quello della mongolfiera che respira.
In questo universo visivo cavernoso e onirico, il montaggio, come un’esile colonna vertebrale, non ha altro scopo se non quello di tenere unite le singole inquadrature. La densità poetica e immaginifica di Taste è quindi tutta collocata nel tempo prolungato dello sguardo: una lenta degustazione di apparizioni e sensazioni.
Annaisa Quarto