«Cosa significa la parola casa per te?»
«È un luogo sicuro, in cui stai e non devi andartene.»
È subito esplicitato il fil rouge di Flee, documentario animato che concorre agli Oscar di quest’anno in tre categorie mai accumunate prima (Miglior Documentario, Miglior Film Internazionale e Miglior Film d’Animazione). Che cosa significa la parola “casa”? La domanda aleggia fin dai primi fotogrammi e racchiude in sé il dramma di una fuga mai conclusa, una straziante odissea nel cuore del protagonista, orfano sospeso e strappato alla sua terra d’origine. Nello spazio rassicurante dell’animazione e nella cornice di una seduta analitica condotta dal regista Jonas Poher Rasmussen, Amin Nawabi (pseudonimo che proteggere la sua vera identità) racconta per la prima volta la sua vita da esule, in fuga dall’Afghanistan in giovane età per salvarsi dagli orrori della guerra. Flee è, per lui, il primo luogo sicuro da tanto tempo. Lo spettatore lo percepisce, sa che può entrare in questa narrazione solo come ospite, in punta di piedi. Chiede permesso prima di varcare la soglia, per essere certo di non violare uno spazio costruito con tanta difficoltà.
La storia di Amin è il racconto di un dramma universale che dà al protagonista la possibilità di riconciliarsi finalmente con il proprio passato. Amin non si limita a raccontare, ma rivive al presente i traumi della sua infanzia spezzata, proiettandoci in un tempo sospeso, liquido, da cui emergono i ricordi più reconditi. Amin riflette su sé stesso e sulla sua identità, ma anche sul senso di responsabilità che avverte nei confronti di chi non è sopravvissuto. Per poter essere accolto in Danimarca dove risiede ormai da diversi anni, ha dovuto cambiare nome e famiglia, reinventandosi e soffocando la propria identità, costantemente taciuta a tutti, talvolta persino a sé stesso. Le immagini, tracce sbiadite ma tangibili del suo passato, rappresentano lo stato emotivo di un uomo che ha perso ogni punto di riferimento, in cui i ricordi si mescolano con le false dichiarazioni che è stato costretto a raccontare. Prudentemente nascosta sotto una coltre di bugie, la verità gli appare sempre più indefinita, come vecchi diari nei quali non riconosce più la propria calligrafia.
La scelta dell’animazione non è solo dettata dall’esigenza di proteggere l’anonimato di Amin, ma è il vero punto di forza del film, in grado di esaltare le sofferenze quanto di catalizzare le emozioni dello spettatore restituendo l’autenticità di una guerra fin troppo attuale. Rasmussen mette in scena con umanità ed empatia la storia di Amin, lascia che sia lui a dettare i tempi del racconto e a decidere quando è tempo di riprendere fiato. Ciò che sembra stargli più a cuore è che il film, grazie alla sua intrinseca potenzialità taumaturgica, possa fare del bene prima di tutto al suo protagonista, come già accadde con Waltz with Bashir (Ari Folman, 2008) e La Strada Dei Samouni (Stefano Savona, 2018) con i quali Flee condivide l’accuratezza del linguaggio formale docu-animato, la ricchezza espressiva del dramma bellico e le prospettive inedite che emergono attraverso catartici percorsi di memoria. Così, anche il film di Rasmussen si presenta come una toccante ibridazione tra due generi apparentemente agli antipodi. L’incontro tra animazione e documentario riesce a restituire una folgorante libertà estetico-narrativi: mischia linguaggi molteplici e travalica confini, rimandando ad altre barriere, necessariamente da abbattere.
Rimane allo spettatore l’augurio sincero che Flee abbia aiutato Amin a guardare la città di Copenaghen senza sentirsi più straniero. L’auspicio finale è che questo percorso gli abbia dato il coraggio di raccontarsi completamente al suo compagno e di accettare i successi della sua carriera professionale con serenità. Forse, adesso, potrà osservare tutto ciò che lo circonda con rinnovata speranza e ritrovare quell’antico calore che possa permettergli di dire “ora, finalmente, sono a Casa”.
Sara Longo