I fatti sono noti: la mattina del 16 marzo 1978 un commando delle Brigate Rosse rapisce il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, dopo aver eliminato a colpi di mitra i 5 agenti della scorta che lo stavano accompagnando a Montecitorio per l’insediamento del quarto governo Andreotti, il primo nella storia repubblicana a cui il Partito Comunista avrebbe dato il proprio appoggio esterno. Da qui inizia un periodo di prigionia di quasi due mesi che si concluderà con il suo assassinio.
Della prigionia, Marco Bellocchio si era già occupato nel 2003 con Buongiorno, notte in cui, in una vicenda ambientata quasi per intero nell’appartamento di periferia dove si trovava il nascondiglio delle BR, si immaginava un finale diverso alla triste vicenda dello statista, liberato da una delle sue carceriere. E oggi, quasi vent’anni dopo, Bellocchio torna a quei giorni per raccontare, in una miniserie di 6 episodi, l’esterno, appunto, di quella storia: quello che il Moro del film del 2003 non avrebbe potuto vedere dalla sua cella; ma forse è stato anche meglio così. Perché quello che Bellocchio mette in scena è, sì, l’esterno, ma appunto l’”esterno notte”: la “notte della Repubblica”, il momento più drammatico della storia post-bellica italiana culminante proprio nel “sequestro Moro”.
Ma la notte è tradizionalmente anche il luogo deputato al trionfo dell’irrazionale, all’incubo. E che Paese da incubo era l’Italia immediatamente successiva al rapimento: reparti dello Stato sclerotici, una Chiesa in agonia, minoranze rumorose convinte di essere maggioranza, ministri schiavi delle consulenze esterne. Tutti desiderosi di raggiungere l’obiettivo più alto, ma tutti troppo impegnati a guardare attraverso il loro spioncino personale – gesto più volte esibito dai personaggi – per evitare di remarsi contro a vicenda. Un panorama che allo spettatore non può non far notare inquietanti parallelismi con il presente.
Ma, al di là delle istanze politico-sociologiche, la miniserie di Bellocchio si inserisce perfettamente all’interno della sua poetica dell’inquietudine e del sogno. Non c’è un singolo personaggio dei cinque ai quali sono dedicati i 6 episodi (eccetto Moro) che non presenti germi di irrequietezza: dall’impotente pontefice Paolo VI alla composta Eleonora Moro, interpretati con maestria rispettivamente da Toni Servillo e Margherita Buy; ma a strappare l’applauso sono il dolente e “shakespeariano” Francesco Cossiga interpretato da Fausto Russo Alesi e l’”esaltata” Adriana Faranda interpretata da Daniela Marra. Tutte figure coinvolte e sconvolte dal rapimento di Moro, vero e proprio perno della stabilità del Paese – e con quale solidità, nonché impressionante mimesi, viene interpretato da Fabrizio Gifuni – che, con la sua scomparsa, fa emergere tutte le paure da sotto il letto dei singoli e della Storia.
Una scomparsa che, nei suoi 55 giorni di durata, ha tenuto gli italiani col fiato sospeso, come una qualsiasi serie tv di successo; non sorprende dunque la scelta di Bellocchio di utilizzare il formato della miniserie per raccontare quei fatti. Fatti che vengono messi in scena in modo classico – supportato da un’attenta ricostruzione storica, un piglio investigativo degno dell’Oliver Stone di JFK e un realismo “sanguinario” già apprezzato ne Il traditore – ma non privo di intuizioni geniali; una su tutte, la via crucis immaginata da Paolo VI con Moro al posto di Gesù Cristo. Lui è riuscito a risparmiarsi il triste spettacolo; noi, purtroppo o per fortuna, no.
Alessandro Pomati