Il regista Ali Kalthami esplicita fin da subito al proprio pubblico la doppia connotazione della parola “Mandoob” che in arabo significa sì “corriere”, ma anche “un individuo compianto per la sua miseria e tragica fine”. Quest’ambivalenza e duplicità semantica in Mandoob – The night Courier – presentato in concorso alla 41° edizione del Torino Film Festival – diventa anche la dualità di un thriller connotato da una forte vena umoristica, che racconta il potere della disperazione nelle disavventure del protagonista.
Al centro di una città in continuo mutamento che stringe nella sua morsa i propri abitanti, si assiste inermi alla metamorfosi di un uomo comune e alla perdita dei suoi ideali. Una metropoli sfaccettata che riflette nella fotografia dai colori vibranti tutta la complessità della sua essenza e del viaggio interiore di Fahad (Mohammed Aldokhei), costretto all’occorrenza a trasformarsi da fattorino in criminale, da figlio amorevole in assassino.
La Riyadh ritratta da Ali Kalthami ricorda la New York notturna e labirintica di Scorsese, anche se questa volta a percorrerne le strade non è un tassista in disperato bisogno di un’altra guerra da combattere, ma un corriere, un Mandoob appunto, che tenta di racimolare quel che basta per occuparsi del padre malato e aiutare la sorella. Disperato e perso nella sua solitudine decide di improvvisarsi fuorilegge, vendendo alcolici al miglior offerente per riuscire a non affondare nei debiti e riprendere in mano le redini della propria vita. Nel passaggio dalla Riyadh degli uffici e delle moschee a quella della vita notturna e dell’illegalità, la trasformazione del protagonista diventa una metafora dell’alienazione dell’uomo nella società contemporanea e del dramma di chi non riconoscendo più il mondo intorno a sé perde se stesso. Un Buster Keaton dei nostri giorni, del quale però riderne delle disgrazie diventa sempre più difficile e doloroso.
Nella storia del cinema non mancano certo personaggi che, in nome della disperazione, sono disposti a tutto. La voce di Kalthami riporta e sottolinea l’umanità e la complessità di un individuo, che prima di essere vittima di ciò che lo circonda lo è di se stesso. Gli sbagli e le contraddizioni rendono il tormento psicologico di Fahad il simbolo di un mondo in cambiamento, nel quale il nitido riflesso della vetrata di un ristorante di lusso si alterna a quello polveroso di uno specchietto retrovisore, dal quale Fahad/Travis Bickle scruta la città.
Elena Bernardi
È meglio fare l’attore. E fare le cose, e non in modo tale da non accorgersi che sono il prodotto dell’ipocrisia e dei doppi standard.