1957, Brooklyn. Rudolph Abel (Mark Rylance) è un mansueto pittore. Una mattina viene arrestato dall’FBI con l’accusa di spionaggio per conto dei Sovietici. Della sua difesa viene incaricato James B. Donovan (un sontuoso Tom Hanks), noto avvocato che si attira le antipatie di un’opinione pubblica e una giustizia prevenute e non imparziali nei confronti di Abel. Ma le tensioni della Guerra Fredda sono incombenti (lo studente Pryor è arrestato a Berlino; il pilota americano Gary Powers alla guida di un aereo-spia viene abbattuto e catturato in Unione Sovietica) e costringono Donovan al difficile compito di mediatore in una Berlino in cui i muri, non solo ideologici, si stanno innalzando.Tratto da eventi storici veri Il ponte delle spie è forse il miglior film di Steven Spielberg dell’ultimo decennio, ma lascia un po’ di malinconia per la rappresentazione veritiera di un passato a noi molto vicino e purtroppo, con le emergenze terrorismo e migranti di oggi, molto attuale.
Prima parola chiave: attualità. Perché una storia ambientata negli anni ’50 è attuale? Il lato oscuro dell’uomo e tutto ciò che esso porta (odio, tensioni, pregiudizio, insensibilità) non hanno tempo. L’Europa di quel periodo era un calderone pronto ad esplodere in qualunque momento e la paura dello straniero dominava.
Seconda parola chiave: paura. Essa non ha confini né temporali né di nazionalità. Colpisce tutti, indistintamente dal ricco al povero e causa chiusura, pregiudizi e posizioni preconcette. Questo avviene ad Abel: la giustizia americana ha già deciso il suo futuro in quanto è una spia, quasi che il processo sia solo una formalità. Un atteggiamento ostile si abbatte su Donovan, il quale rischia di perdere il lavoro e le amicizie, e subisce minacce solo perché, in quanto avvocato, deve garantire che anche il più colpevoli fra i colpevoli possa avere un equo processo. La paura lo accompagna anche tra i pericoli della Berlino della fine degli anni ’50: pericoli di natura fisica (una città militarizzata, con il Muro in costruzione) che ideologica, perché la diplomazia e la politica sono sporche, soggette a ricatti e ad egoismi.
Regole del Potere direte voi, ebbene, a queste regole Donovan decide di non sottostare. Se i sovietici rivogliono Abel, non solo devono restituire Powers, ma anche lo studente statunitense che ha solo avuto la sfortuna di trovarsi dal lato sbagliato della città nel momento sbagliato. Costui è considerato dalla Madre Patria una pedina sacrificabile, ma non da Donovan. Perché? Qui entra in gioco il vero fattore che muove il mondo, il fattore umano.
Ecco la terza parola chiave. Umanità. Donovan viene spedito allo sbaraglio a fare da mediatore. Giochi di Potere per i Governi, null’altro, ma per l’avvocato diventa una questione tra esseri umani, persone che si incontrano e discutono per trovare una soluzione ad una crisi che rischia di mettere a repentaglio la sopravvivenza e la libertà di altri esseri umani, non importa di quale nazionalità. Questa è l’idea con cui usciamo dalla sala: umanità. Alla fine è tutta una questione tra uomini. Le divergenze possono essere appianate a prescindere dalla posizione che si ha.
Magistralmente diretto da Spielberg con una fantastica fotografia saturata e dagli echi noir del fedelissimo Janusz Kaminski, con una colonna sonora ben congegnata da Thomas Newman e con attori straordinari: Hanks su tutti, ma anche Mark Rylance (candidato al Golden Globe come Attore non protagonista) è davvero toccante nelle sue poche, ma straordinarie espressioni.
Un messaggio di pace? Forse, più che altro un invito alla Parola.
Thank You Mr. Spielberg.