C’è un poeta, in Italia, che pochi conoscono, ma che quando fa i reading riempie le sale di gente. Questo poeta è Guido Catalano, torinese d’origine, che quando aveva diciassette anni ha scelto di diventare una rockstar e, da un certo punto di vista, oggi, che di anni ne ha quarantacinque, ci è riuscito (anche se non nel senso classico del termine).
Il regista, il giovanissimo Alessandro Maria Buonomo, firma il suo esordio nel lungometraggio, come tutti gli altri membri della casa di produzione, la Elianto Film, con il mockumentary Sono Guido e non Guido, a metà tra farsa e documentario sulla vita e la personalità artistica di quello che è considerato “il più grande poeta professionista vivente”. Alla conferenza stampa di questa mattina Buonomo racconta di aver fatto la scoperta di Guido e delle sue poesie per caso, ad un reading affollatissimo, insieme agli amici e compagni della Scuola del Cinema di Milano, durante le vacanze estive in Puglia, ormai cinque anni fa. Poi spiega di essere ritornato ad uno di quei “raduni” e di essersi reso conto che in una sala stavano riunite più di quattrocento persone, sedute solo e semplicemente ad ascoltare poesie. “Il tempo in cui viviamo è estremamente veloce e frammentario, la gente si annoia, ha una soglia di attenzione di cinque secondi, e poi invece si sta più di un’ora ad ascoltare una persona che declama poesie su un palco. Questo per me era significativo e così, con gli altri, abbiamo deciso che quella era la storia che ci sembrava importante da raccontare, la storia giusta per noi”.
Il titolo è volutamente ambiguo: il secondo “Guido” può essere interpretato anche come voce del verbo “guidare”, e questo lo spiega Catalano in persona, aprendo subito con una battuta: “C’è da dire che io non ho neanche la patente, al massimo guido la bicicletta!” Non si troverebbe a suo agio nei panni di “guida spirituale”, Guido Catalano, ma il doppio senso rimanda anche al fatto che nel documentario si insinua la presenza del fratello gemello di Guido, Armando Catalano, che si rivela essere nientemeno che il vero autore delle poesie declamate dal fratello. Inventare un titolo formato da un gioco di parole è anche un rischio, come sottolinea il regista, ma è un po’ quello che si cerca di fare in tutto il film, stare su una linea sottile tra finzione e verità.
“Davvero, io volevo fare la rockstar a diciassette anni, poi le cose sono andate diversamente, però mi ritengo abbastanza fortunato perché lavoro in posti dove si suona”, dichiara ancora Catalano; e poi alla domanda su quali siano le fonti delle sue poesie risponde che, in generale, si rifà alle canzoni d’amore di Battisti, ai fumetti, in particolare a Peanuts di Schulz, che è “un poeta allo stato puro”, a Pavese e al cinema horror (anche se dell’ultimo non si serve nella stesura delle sue poesie).
A chi gli chiede il perché della scelta del mockumentary per raccontare la storia di Guido/Armando Catalano, il regista risponde che ha permesso di scavare più a fondo nella conoscenza del personaggio, proprio perché ha dato la possibilità di scinderlo in due e di approfondire entrambe le parti senza pregiudizio. Inoltre, l’idea di intraprendere un percorso così lungo (la lavorazione è durata circa due anni) attraverso la scelta del genere mockumentary, con cui “si mette in crisi il fatto e la narrazione del fatto” stesso, è anche dettata da una scelta della troupe di riflettere sul “mezzo” cinematografico.
Alla fine, quindi, cosa ci può rivelare, di segreto, Guido Catalano sul suo fantomatico fratello gemello Armando? “È in Messico in questo momento, si sta divertendo con i soldi della produzione. È la cosa più segreta che posso dire di lui ora, è una persona molto sensibile e si emoziona facilmente”.