“Smrt u Sarajevu” (“Death in Sarajevo”) di Danis Tanovic

 

“Il XX secolo inizia e finisce a Sarajevo” spiega un intervistato ad una giornalista durante una diretta tv sulla terrazza dell’Hotel Europa.

Siamo a Sarajevo, cento anni dopo la morte di Francesco Ferdinando e la città, la nazione e l’Europa si preparano ai festeggiamenti.

L’Hotel Europa, storico punto di riferimento della città, ospita le diplomazie europee per l’evento. La struttura versa in grossi guai economici, ed il direttore non paga lo staff da oltre due mesi. Ora, i lavoratori, vogliono manifestare la loro situazione davanti agli occhi dell’Europa, costringendo il direttore a chiedere aiuto alla malavita locale per intimidirli.

L’ intreccio drammaturgico si srotola nei corridoi dell’hotel in ogni direzione guidato da Lamjia, la giovane capo receptionist, attraverso lunghi piani sequenza che ci mostrano luoghi e situazioni. Questa struttura narrativa fa immergere lo spettatore nella moltitudine di mini storie racchiuse in queste quattro mura: il direttore nei guai con la banca, i servizi di sicurezza che si organizzano per accogliere i diplomatici, le loro storie private che emergono più volte.

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Il soggetto del film è tratto da un monologo di Bernard Henry-Levi: un diplomatico francese prova nella sua stanza il discorso che dovrà fare alle televisioni. La struttura originale del monologo di Levì era questa, il film vi torna spesso sopra, come a voler ricordare la dimensione teatrale dell’opera che si sta vedendo.

Il monologo in sceneggiatura si amplia e diventa corale mostrandoci un punto di vista multiplo della società contemporanea jugoslava, dove ritornano vecchie ombre e angosce della guerra, le paure di ognuno e le diffidenze tra i personaggi, e un’insoddisfazione generale per ognuno.

La sensazione che emerge dopo la visione di Death in Sarajevo è quella di un popolo disgregato e senza fiducia verso le autorità, inquieto per il futuro incerto e una totalmente privo di comunicazione tra le persone, come è rappresentato simbolicamente dall’aiuto reciproco che manca ai personaggi.

Il regista stesso fu tra le fila dell’esercito bosniaco durante la guerra ed ha una ferita ancora aperta, continua a rimuginare malinconicamente su questioni sepolte. Tanovich ci prospetta un quadro doloroso che è giusto tener presente.

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