Sono due fratelli diabolici i Blue Kids messi in scena dall’esordiente Andrea Tagliaferri, uno dei due italiani – insieme a Jacopo Quadri coi suoi Lorello e Brunello – in concorso al TFF. Non una gavetta comune quella di Andrea, che ha iniziato il suo viaggio nel panorama cinematografico come stagista al montaggio per Gomorra e ha proseguito la formazione con Matteo Garrone facendo da aiuto alla regia per Reality, Il racconto dei racconti e Dogman, ancora in fase di realizzazione.Garrone ha partecipato al film in veste di produttore con la sua Archimede, in collaborazione con Rai Cinema, prestando il suo sguardo navigato soprattutto nella fase di montaggio, che ha rivelato non pochi problemi. Come ha raccontato Tagliaferri in conferenza stampa, infatti, il film pecca di debolezza nella struttura narrativa, che abbozza una storia fiacca e dai tratti surreali. Riscontrando questo difetto, è stato chiamato un altro sceneggiatore a dar man forte al regista-autore e la troupe è tornata a girare alcune scene, ma evidentemente non è bastato mettere delle toppe per portare in sala un lavoro completamente riuscito.
In sostanza due fratelli, incarnati da Fabrizio Falco e Agnese Claisse (segni particolari: occhi magnetici, cicatrice sul viso, sua madre è Laura Morante), si vedono negare dal padre l’accesso alla cospicua eredità della madre appena defunta. Questo semplice pretesto scatena l’apatica follia dei due, che si spingono ad azioni efferate senza mostrare mai consapevolezza né rimorso. È proprio l’apatia che caratterizza questi due protagonisti stilizzati, vestiti sempre allo stesso modo come personaggi dei fumetti, privi di nome e motivazioni. L’idea è quella di ispirarsi ai numerosi fatti di cronaca nera a sfondo familiare per poi trarne una vicenda astratta, universale, che dia voce a uno stato d’animo, quello di persone dissociate dalla realtà ed emotivamente anestetizzate, in fuga nei ricordi infantili, simboleggiati dalla nonna e dai cartoni animati. Si uniscono temporaneamente ai misfatti della coppia un cosplayer poco raccomandabile e una cameriera di larghe vedute (impersonata dalla sensuale Matilde Gioli), ma il loro ruolo nella vicenda appare del tutto casuale e per nulla incisivo. Il regista calca la mano sulla totale mancanza di responsabilità e di senso, ma non riesce a costruire figure credibili né una narrazione coinvolgente.
Rende però godibile la visione la splendida fotografia di Sara Purgatorio, che tratteggia efficacemente i luoghi del film: si tratta di Faenza e dintorni, terra del regista – inesplorata al cinema – che assume contorni sfumati e dark in una nebbia avvolgente. Campi lunghi e lunghissimi che ritraggono le saline, il mare in inverno, uno spiazzo paludoso e danno respiro al film, costellato per il resto di inquadrature ravvicinate. Tagliaferri inoltre dimostra il suo talento registico attraverso il virtuosismo della macchina da presa, le inquadrature perfette, i giochi di messa a fuoco che regalano immagini affascinanti in alternanza tra i piani strettissimi sui volti degli attori, che risultano assai espressivi (ben più degli scarni dialoghi), e piani lunghi che ritraggono gli sfondi, che costituiscono quasi un terzo protagonista, oscuro quanto gli altri due. Il film incanta l’occhio, come raramente riesce a fare il nostro cinema, ma lascia con l’amaro in bocca, con un senso di insoddisfazione paragonabile a quello dei “bambini blu”. Insomma, per l’opera seconda diamo a Tagliaferri una buona storia, lo sguardo è quello giusto.