Famiglia, rapporti interpersonali, perdono e violenza sono alcuni temi del primo lungometraggio a soggetto del regista tedesco David Nawrath che, insieme alla produttrice Britta Knoller, ha presentato il suo film in concorso per il TFF36. Walter (Rainer Bock) è il nome del protagonista che, alle dipendenze di un imprenditore colluso con la malavita, si guadagna da vivere sgomberando le case degli inquilini sfrattati; resistendo stoicamente alla fatica, mostrandosi impassibile alla brutalità e all’aggressività dei suoi colleghi più giovani, vive da solo, parla il meno possibile e dorme sul pavimento di casa. Nonostante appaia impermeabile agli eventi esterni, la sua vita sta per cambiare.
Lo script, caratterizzato dalla brevità e scarsità (in senso quantitativo) dei dialoghi oltre che dalla decisione di non contestualizzare esplicitamente la vicenda, ha colpito fortemente gli attori, che vi si sono attenuti senza apportare o proporre modifiche ai personaggi. Unico cambiamento rispetto al copione è la fisicità del protagonista, come spiega il regista David Nawrath in conferenza stampa: “Fui consigliato di contattare Rainer che, nonostante i molti ruoli interpretati – anche in pellicole internazionali -, non era mai stato il personaggio principale di un film. Quando lo incontrai mi convinsi immediatamente, nonostante il suo corpo fosse meno imponente e massiccio rispetto alla mia idea”.
Lo sforzo fisico cui quotidianamente si sottopone è espressione della fatica in lui generata da un enorme peso, non quello della solitudine, ma delle cause che la generano. Numerosi i piani ravvicinati, che esaminano i suoi lineamenti, indugiano sulle sue espressioni e ne esprimono il dramma (solo) interiore; la scena madre del film, la più intensa oltre che esplicativa, ospita l’unico momento in cui Walter si abbandona – forzatamente – a uno sfogo, una confessione: la macchina da presa lo inquadra in primo piano, gli si avvicina delicatamente mentre lui rivela ciò che lo affligge, come a voler alleggerire l’insopportabile fardello. Destinatario della rivelazione è il suo antagonista, che si frappone tra lui e quella che improvvisamente è diventata la sua possibilità di liberarsi dalla gabbia in cui si è imprigionato. La regia è volutamente asciutta e priva di soluzioni ardite o spettacolari, in virtù della scelta (azzeccata, secondo chi scrive) dell’autore di rendere un parallelismo “psico-tecnico” tra il film e il suo protagonista.
Atlas è un film sulla speranza: la speranza che durante l’intero film sembra esaurita e che resuscita nel finale, ribaltando in un attimo lo stato d’animo dello spettatore.
“ATLAS” DI DAVID NAWRATH | CineD@ms Torino http://judibca.net