“In un mondo in cui tutto sembra possibile, non riusciamo più a raccontarci”: con questa frase Cristina Comencini riassume il senso più profondo del documentario presentato da lei e Roberto Moroni a questa edizione del Festival.
L’opera, prodotta in collaborazione con Rai Teche, è un documentario realizzato con immagini di repertorio della Rai, che indaga i costumi sessuali dell’Italia nell’arco dei primi trentacinque anni di storia televisiva del Paese raccontando il rapporto di osmosi allora esistente tra televisione e popolazione.
Le immagini mostrate si spiegano da sole, non hanno bisogno di introduzione o commenti e si susseguono in un flusso dettato dalle diverse prospettive da cui è osservata la rivoluzione sessuale, permettendo allo spettatore di cogliere diverse sfumature di temi quali i mutamenti nella moda femminile, la rappresentazione del corpo della donna nelle pubblicità, l’importanza attribuita alla verginità, il ruolo della donna nel matrimonio, l’adulterio, le differenze sociali tra maschi e femmine e l’arretratezza dell’Italia rispetto ad altri Stati.
Allo spettatore sono mostrati stralci di talk show, servizi su fatti di cronaca (come il ragazzo che aveva provato a uccidersi perché il ginecologo non era in grado di stabilire se la sua ragazza fosse vergine prima di fidanzarsi con lui), interviste a uomini e donne su cosa sia per loro l’adulterio, giochi televisivi, balli delle vallette e dialoghi con bambini sulle relazioni sessuali, volti a veicolare l’idea del sesso come mistero.
L’importanza di questo progetto emerge nel confronto tra la televisione di quegli anni e quella attuale.
“La visione di questo documentario mi ha lasciato un pizzico di amarezza”, ha affermato Paolo Del Brocco (Amministratore delegato di Rai Cinema) riferendosi proprio a questo aspetto; è infatti immediatamente visibile un diverso modo di rapportarsi ai temi affrontati. Dalle immagini di repertorio emerge infatti l’autoironia che caratterizzava la televisione italiana, con conduttori, ospiti e vallette che discutevano di quali abiti fosse possibile e appropriato indossare durante le trasmissioni, palesando i limiti imposti dal senso del pudore allora diffuso; ma emerge anche un approccio differente alla realtà, una volontà di raccontarla e analizzarla in maniera più libera, senza timore di sbagliare (“nel mondo delle libertà non ci sentiamo più liberi di sbagliare”, ha detto la regista durante la conferenza stampa).
Come affermato da Cristina Comencini, l’opera assume il ruolo di “richiesta alla televisione di cominciare di nuovo a raccontare com’è realmente l’Italia”, perché “un documentario come Sex Story su quest’epoca non sarebbe realizzabile con frammenti degli attuali programmi televisivi”.