La porta è un elemento multisimbolico, uno spazio franco fra il dentro e il fuori, un limite, un ostacolo, oppure un simbolo d’accoglienza e di transizione, di mutamento. Marcello Sannino, intorno al 2010, decide di raccontare Napoli e lo fa ponendo al centro del suo progetto Porta Capuana; non sa ancora di preciso quale sarà l’esito finale del film, ma ciò che ha per certo è l’idea di tentare di rappresentare Napoli e le sue svariate peculiarità. Volti, oggetti, momenti di aggregazione, musica, urla e risate; tutto passa da quel monumento che da sempre si erge come simbolo di transizione verso il cuore della città; restando nei suoi paraggi si può ammirare il tempo della quotidianità che muta, ma che, contemporaneamente, dente perpetua la solita routine.
Il film, il cui titolo prende nome dal monumento al centro del progetto, rifiuta la narratività e lo sviluppo classico del documentario. Appare allo spettatore come un mosaico in movimento di tante vite e tanti gesti. Proprio questi ultimi sono al centro del pensiero di Sannino, frequentatore di Porta Capuana e spettatore di tutto ciò che il film mostra. Le macchine da presa, cambiate di anno in anno, portano sullo schermo una serie di formati diversi, che vogliono testimoniare l’atemporalità del film che si accende su quel microcosmo e indaga senza una precisa intenzione narrativa. L’importanza dell’attimo colto, del gesto irripetibile o della quotidianità prevale sull’esigenza di un racconto lineare.
Di fronte a questo ventaglio antropologico, a vite che s’intrecciano passando sotto la storica porta, lo spettatore è chiamato a intervenire sul testo filmico: ha la possibilità di creare raccordi e di trovare connessioni narrative. L’inizio di Porta Capuana è di tipo documentaristico: un uomo illustra il sito di Castel Capuano, raccontandone storia e aneddoti. Il regista rivela, nel dibattito a fine proiezione, come quell’inizio, apparentemente convenzionale, fu frutto del caso che lo fece incontrare con questa persona, già intenta a illustrare le sale del castello a un suo conoscente.
Questo aneddoto fa riflettere su come, spesso, Napoli ami raccontarsi da sola. La stessa colonna sonora, firmata da Riccardo Veno, poteva essere omessa a favore di tutti quei suoni in presa diretta che comprendono spesso musiche e canzoni. Proprio per questo motivo sarebbe risultato eccessivo e forse inutile avere una voice over che spiega e descrive ciò che la macchina da presa propone con le immagini.
Il regista afferma che in fase di montaggio ha creato una struttura a capitoli e raccordi logici: un capitolo è dedicato al vuoto, all’abbandono di quei luoghi che un tempo erano popolati e offrivano lavoro, come una fabbrica, ora abbandonata, di scarpe firmate Valentino. Un capitolo è dedicato alle chiese, da quella cristiana a quella battista per poi focalizzarsi su quelle “chiese” pagane che sono le sale di scommesse sportive; un capitolo è dedicato ai volti ecc.
È un ordine, quello che Sannino dà al film, che risalta in particolar modo nella parte iniziale, dove i filmati d’epoca – dei quali uno è dei fratelli Lumière – s’intrecciano con quelli contemporanei, talvolta evidenziando l’immutabilità dei luoghi, talvolta mostrando il loro abbandono attuale. D’altronde ciò che ha sempre affascinato della città partenopea, è proprio la conservazione dei propri riti, delle proprie abitudini. Nel bene e nel male, il tempo sembra non mutare mai in quelle piazze, vicoli e palazzi risonanti di urla e canzoni. Lo stesso regista ammette che se il suo film fosse girato in bianco e nero, ignorando le evoluzioni tecnologiche, potrebbe sembrare un filmato d’epoca.
Porta Capuana è, infine, come la città stessa, una babele culturale e linguistica. Emblematiche sono le immagini di quegli algerini e africani, che si riuniscono nel centro scommesse o in piazza, davanti un megaschermo, per seguire una partita della propria nazionale di calcio. Il film parla dunque anche dell’accoglienza di quelle etnie che fuggono da realtà devastate dal dolore e trovano qui una casa che, il più delle volte, diventa temporanea, come testimonia lo stesso Sannino, ricordando com’erano diverse le etnie che popolavano quella zona, quando era più giovane.
nella recensione si è saputo cogliere sia il significato del documentario che l’anima del popolo napoletano nel vivere con pienezza la vita quotidiana e di inclusione.
Un film davvero inutile.