L’attività criminale di Carlos Eduardo Robledo Punch inizia in una tranquilla giornata di marzo del 1971, a soli 19 anni. Carlitos – un viso angelico incorniciato da spumosi riccioli biondi – ha gli occhi curiosi di bambino e un grilletto sorprendentemente facile.
Quando decide di irrompere nelle ricche proprietà altrui lo fa istintivamente, quasi per gioco. Mangia, beve, prende ciò che gli serve, si rilassa. Se incontra qualcuno di troppo – sia esso un custode o il padrone di casa – non ha esitazioni: inforca la semiautomatica e spara. Con semplicità.
Ciò che colpisce lo spettatore sin dai primi minuti è proprio la sconcertante facilità con cui Carlitos – qui interpretato da un esordiente Lorenzo Ferro – commina la pena capitale alle sue vittime. A guidarlo non sono né l’avidità dei criminali comuni né la metodica follia dei serial killer; e neppure quel desiderio di rivalsa sociale tipico di certa mitologia gangster. Motore dell’azione è piuttosto uno sconfinato, nietzschiano senso di libertà individuale, assoluta e inalienabile, a cui il giovane Carlitos sembra non voler rinunciare.
Una decina di omicidi, e poi stupri, rapine, abusi, accoltellamenti, furti e sottrazione di minori; la macchina da presa di Luis Ortega segue la parabola ascendente dell’Angelo del crimine preferendo l’osservazione all’introspezione, il pedinamento all’indagine psicologica. Lo spettatore tallona Carlitos con lo zelo di un entomologo, affannandosi a scovare su quel volto da putto le tracce del male. Ma ogni tassonomia risulta vana e fallimentare, perché quando guardiamo il giovane sorriderci, o ballare, o indugiare fra le lenzuola a mattina inoltrata, si fatica a non empatizzare con lui.
Come chiunque fra noi Carlitos ha infatti una vita normale, una casa, due genitori onestissimi e lavoratori. E non è nemmeno una questione di politica, perché Guevara e il peronismo sono solo echi lontani, e Buenos Aires potrebbe benissimo essere una qualsiasi altra metropoli d’occidente.
Ma allora, da dove viene il male? Quando la pellicola finisce la domanda rimane irrisolta, ed è proprio questo cortocircuito il lascito migliore del film. Prendendo in prestito le parole del filosofo di Lützen, ogni tentativo di analisi risulterebbe dunque un’operazione intellettuale umana, troppo umana.
Oggi come allora, cosa si celi dietro le labbra carnose del giovane Carlitos non è dato saperlo.