A los migrantes, en sus viajes inciertos y llena de promesas, a las famillas de los desaparecidos.
Questa la dedica che chiude i titoli di coda di un film che non finisce per davvero, ma continua a vibrare nell’eco potente della realtà che racconta. Dei migranti, dei loro viaggi incerti e pieni di promesse, delle famiglie dei dispersi: il film racconta tutto questo percorrendo il viaggio di Magdalena, madre alla ricerca di un figlio partito per gli Stati Uniti in cerca di salvezza e scomparso da mesi. Nato come cortometraggio nel 2012, il film ha continuato a crescere con la sua regista insieme al male che racconta, quello della violenza che lacera la società messicana di oggi e continua ad aprire una ferita che non smette di sanguinare. Fernanda Valadez sceglie di analizzare quel sangue attraverso la misura dell’intimità: Sin señas particulares è un film che denuncia il dolore di un paese, nell’esperienza del dolore di una madre.
La regia, perfettamente al servizio del contenuto, costruisce un linguaggio estetico autonomo e molto definito. Inquadrature lunghe, sostenute, feroci, che quando possono non mollano le oggettive di Magdalena in primissimo piano che esauriscono dialoghi interi. L’intensità dinamica delle immagini non è data dal ritmo o dal montaggio, ma dall’insistenza spesso ossessiva di inquadrature prolungate che seguono un piano stilistico definito: la regista lavora la materia dell’immagine (la profondità, la messa a fuoco) e la rimodula in chiave poetica con grande violenza espressiva. L’effetto sfocato tipico dei primi piani hollywoodiani, estratto dal suo contesto classico e portato allo stremo, diventa un segno autonomo che supera lo stile, altera la realtà e la deforma. Sfondo miope che ha l’effetto riuscito di forzare lo sguardo dello spettatore e incollarlo sull’unico “ritaglio” a fuoco: il volto di chi parla, soffre, medita. Si crea in questo modo un senso di oppressione, non ci è consentito guardare oltre, decifrare le sfocature, trovare appigli che ci aiutino a comprendere: è l’esatta condizione in cui si trova Magdalena, costretta a cercare risposte in un luogo anonimo e violento in cui donne e uomini scompaiono, sono dati per dispersi, restano corpi senza nome. Il fuori campo diventa un prolungamento dell’inquadratura e partecipa di questa estetica dell’anonimo: spesso i dialoghi restano fuori dall’immagine lasciando gli interlocutori invisibili, nascosti o di spalle. Il buio e il silenzio diventano possibilità narrative, l’assenza di immagine un’affermazione. La regista ha poi la sensibilità di alternare a queste scelte soluzioni aperte e profonde, che fanno respirare l’occhio restituendogli il permesso di indagare liberamente lo spazio. La macchina da presa non ha bisogno di muoversi troppo e lo fa giustificandosi (lo sballottare di un camion o di un furgone). Il suono, nudo e puro, è usato con significato e intelligenza: spesso le inquadrature sono incollate tra di loro da raccordi sonori. La musica è minimale, e il film è denso di rumori naturali e tappeti sonori (ma i titoli di coda significativamente scorrono in silenzio).
Sin señas particulares riesce a trasmutare l’orrore in linguaggio e lo fa attingendo alla cultura religiosa di un paese cristiano (questo spiega i nomi di madre e figlio, Magdalena e Jesus). Il risultato coerente di questo tentativo è la rappresentazione del maligno nella sua forma religiosa assoluta, “el diablo”. Fernanda Valadez riesce a sensibilizzare un tema terribile, mostrando la schiena nuda di un Messico selvaggio e terroso dove gli autobus scompaiono nella polvere insieme ai migranti che cercano di salvarsi. Si salvano le valigie: restano i corpi senza nome o senza “segni particolari”. La storia di una madre e di un figlio desaparcido diventa la storia di tutti.
Magdalena: “di spalle assomigli a mio figlio”
Miguel: “tutti ci assomigliamo di spalle”.
Francesco Dubini