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“DISSIDENT” BY STANISLAV GURENKO AND ANDRII ALF’EROV

Article by Emidio Sciamanna

Translation by Vittorio Cavalli

The Kyiv of 1968, depicted by Stanislav Gurenko and Andrii Alf’erov in Dissident, is not a vibrant urban symphony like the avant-garde Berlin of Walter Ruttmann, but a grey, oppressive sprawl of streets and buildings constantly hit by a violent and unrelenting rain, a ghost of the Soviet Union that looms, heavy and suffocating, over the shoulders of the Ukrainian population. In the dissonant flow of a city in motion, the dreams, anxieties, and illusions of individuals abandoned to their fate intertwine, tormented by solitude and in perpetual conflict between a peaceful struggle for independence and a burning desire for rebellion.

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“DISSIDENT” DI STANISLAV GURENKO E ANDRII ALF’EROV

La Kiev del 1968 rappresentata da Stanislav Gurenko e Andrii Alf’erov in Dissident non è una vitale sinfonia urbana come la Berlino avanguardista di Walter Ruttmann, ma un cinereo agglomerato di strade ed edifici costantemente colpiti da una pioggia violenta e incessante, spettro dell’Unione Sovietica che aleggia, oppressiva, sulle spalle del popolo ucraino. Nel flusso disarmonico di una città in movimento si intrecciano i sogni, le angosce e le illusioni di individui abbandonati a loro stessi, tormentati dalla solitudine e in perenne conflitto tra una pacifica lotta per l’indipendenza e un ardente desiderio di ribellione.

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“L’AMORE CHE HO” BY PAOLO LICATA

Article by Marilina Rita Monzo

Translation by Irene Pezzini

L’amore che ho (The love I’ve got) by Paolo Licata, presented at the 42nd Torino Film Festival, celebrates Rosa Balisteri, an emblematic voice of Sicily and a symbol of social struggle and resistance. The film, based on the novel of the same name by Luca Torregrossa – the singer’s nephew – goes beyond merely recounting her musical career, but it also fully explores her personal battles and the most private and painful moments of her life.

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“L’AMORE CHE HO” DI PAOLO LICATA

L’amore che ho di Paolo Licata, presentato al 42° Torino Film Festival, celebra la figura di Rosa Balistreri, voce emblematica della Sicilia e simbolo di lotta e resistenza sociale. Il film, tratto dall’omonimo romanzo di Luca Torregrossa, nipote della cantante, non si limita al racconto della carriera musicale, ma esplora con intensità le battaglie personali e i momenti più intimi e dolorosi della sua vita.

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“THE SILENCE OF LIFE” BY NINA BLAŽIN

Article by Alessandra Sottini

Translation by Federica Riccardi

On an ordinary day, Manca Košir explains to his family the secret of the enchanting cherry blossom: its beauty captivates the observer, but its brittleness and the passage of time make quickly fade that instant of wonder. The eternity of being is enclosed in the celebratory activity of life, day by day. Slovenian director Nina Blažin, who has experienced first-hand the loss of a loved one, feels close to the joyful and combative personality of the protagonist of The Silence of Life, filmed between 2019 and 2023.

A play on oppositions, or a lyrical oxymoron, seems to suggest the title of the film in competition in the international documentary section of the 42nd Turin Film Festival. The Silence of Life seems to tell us that silence is not always the only weapon available against the inevitability of death: stricken by throat cancer, Manca opposes this adverse destiny with specific speech exercises.

The Silence of Life (2024) di Nina Blažin

The camera probes and observes this woman who is as tenacious as she is aware of her condition. However, the documentary gaze is not ‘cooled down’ by the usual techniques of tailing and approaching, because it is Manca herself who makes the viewer live her story: despite the oppressive weight of time passing by, it is herself who inhabits the space with gestures and words and colours the atmosphere with her clothes (overall red, yellow and pink).

‘Death is part of our existence and we must take as such’. This is the indelible trace left by Manca Košir, then.

“THE SILENCE OF LIFE” DI NINA BLAŽIN

In un giorno come tanti, Manca Košir spiega alla sua famiglia il segreto dell’incantevole fiore del ciliegio: la sua bellezza cattura l’osservatore, ma la sua fragilità e lo scorrere del tempo fanno svanire velocemente quell’istante di meraviglia. L’eternità dell’essere, dunque, è conchiusa nell’attività celebrativa della vita, giorno dopo giorno. La regista slovena Nina Blažin, che ha vissuto in prima persona la perdita di una persona amata, si sente vicina alla personalità gioiosa e combattiva della protagonista di The Silence of Life, girato tra il 2019 e il 2023.

Un gioco di opposizioni, o un ossimoro lirico, sembra suggerire il titolo del film in concorso nella sezione documentari internazionali della 42ª edizione del Torino Film Festival. The Silence of Life sembra dirci che il silenzio non è sempre l’unica arma a disposizione contro l’inevitabilità della morte: colpita da un cancro alla gola, Manca contrasta questo destino avverso con specifici esercizi di pronuncia.

The Silence of Life (2024) di Nina Blažin

La macchina da presa indaga e osserva questa donna tanto tenace quanto più consapevole della sua condizione. Tuttavia, lo sguardo documentario non è “raffreddato” dalle consuete tecniche di pedinamento e di avvicinamento perché è Manca stessa a far vivere allo spettatore la propria storia: nonostante il peso opprimente del tempo che scorre, è lei ad abitare lo spazio con i gesti e le parole e a colorare l’ambiente con i suoi vestiti (predominano il rosso, il giallo e il rosa).

«La morte fa parte della nostra esistenza e dobbiamo prenderla come tale». Questa è dunque la traccia indelebile lasciata da Manca Košir.

Alessandra Sottini

“L’AIGUILLE” BY ABDELHAMID BOUCHNACK

Article by Beatrice Bertino

Translation by Irene Pezzini

A love story and the desire to create a family are the starting point of Abdelhamid Bouchnack’s film. Mariem, an orphan, who does not wear the veil, and Dalì, a Muslim who prays from time to time, are two young Tunisians who represent the avant-garde to which their country aspires. The birth of their child, however, reveals the deep uncertainties that govern a stagnant culture.

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“L’AIGUILLE” DI ABDELHAMID BOUCHNACK

Una storia d’amore e il desiderio di creare una famiglia sono il punto di partenza del film di Abdelhamid Bouchnack. Mariem, orfana e senza il velo, e Dalì, un mussulmano che a volte prega e altre no, sono due giovani tunisini che rappresentano l’avanguardia a cui aspira il loro Paese. Tuttavia, la nascita di unə figliə fa emergere e rivela le profonde incertezze che governano una cultura stagnante.

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“RAGAZZI DI STADIO” BY DANIELE SEGRE

Article by Nicolò Cifarelli

Translation by Vittorio Cavalli

An extraordinary time-capsule takes us to the late 1970s Turin, where a lost youth experiences the birth of a phenomenon, the ‘ultras’, which would gradually become more and more important in the public life of our country.

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“RAGAZZI DI STADIO” DI DANIELE SEGRE

Una straordinaria capsula del tempo ci trasporta nella Torino di fine anni Settanta, dove una gioventù smarrita vive la nascita di un fenomeno, quello ultras, che diventerà via via sempre più importante nella vita pubblica del nostro paese.

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“THE BRINK OF DREAMS” BY NADA RIYADH E AYMAN EL AMIR

Article by Lisa Cortopassi

Translation by Aurora Monteleone

In the opening image of The Brink of Dreams, we can see six girls running through a field. As in the case of the scene of three children walking in the Icelandic countryside from which Chris Marker’s Sans Soleil (1983) takes its cue, this moment also evokes the sensation of witnessing a dream, a vision of hope.

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“THE BRINK OF DREAMS” DI NADA RIYADH E AYMAN EL AMIR

Nell’immagine che apre The Brink of Dreams vediamo sei ragazze che corrono in un campo. Come nel caso della scena dei tre bambini che passeggiano nella campagna islandese da cui prende le mosse Sans soleil di Chris Marker (1983), anche qui si ha la sensazione di assistere a un sogno, a una visione di speranza.

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“IMMÉMORIAL, CHANTS DE LA GRANDE NUIT” BY BÉATRICE KORDON

Article by Lisa Cortopassi

Translation by Martina Bigi

Darkness, cold. A metallic melody and an off-screen voice introduce the spatial and thematic coordinates of Immémorial, Chants de la Grande Nuit. Legend has it that, in a primordial moment, the Gods tore the Night to reveal the “world of things.” This is how form, language, and day were created. Using this myth as a framework, Béatrice Kordon investigates on the “immemorial” time: a time that is both past and future, a time that leaves no trace and waves between death and birth, darkness and light.

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“IMMÉMORIAL, CHANTS DE LA GRANDE NUIT” DI BÉATRICE KORDON

Buio, freddo. Una melodia metallica e una voce fuori campo introducono le coordinate atmosferiche e tematiche di Immémorial, Chants de la Grande Nuit. Si racconta di un momento primigenio in cui gli Dei avrebbero squarciato la Notte per far emergere il «mondo delle cose». Così sarebbero nate la forma, la parola e il giorno. Servendosi del mito, Béatrice Kordon conduce un’indagine sul tempo “immemorabile”: un tempo che è tanto passato quanto futuro, che non ha traccia e che è in bilico tra la morte e la nascita, tra il buio e la luce.

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“ARTURO A LOS 30” DI MARTÌN SHANLY

Quanta sofferenza c’è nel “diventare grandi”? Se nel suo primo lungometraggio Juana a los 12 (2014), il regista argentino Martín Shanly aveva esplorato le incertezze di una ragazza che non si sente all’altezza delle aspettative degli adulti, in Arturo a los 30 il protagonista (interpretato dallo stesso Shanly, anche co-sceneggiatore del film) è un adulto che non riesce a sentirsi tale. Arturo incarna il millenial perfetto: sempre sotto farmaci, senza un lavoro stabile e per questo costretto a casa dei genitori, incapace di creare relazioni o di gestire nuove responsabilità. Va avanti così fino a quando, il giorno del matrimonio di un’amica, sarà costretto a confrontarsi con la propria esistenza. 

Attraverso la scrittura del suo diario, Arturo si muove avanti e indietro nella storia della sua vita cercando di darle ordine, mescolando passato e presente secondo una logica associativa più che cronologica. Un flashback dopo l’altro iniziamo a comprendere che c’è qualcosa di profondamente irrisolto nel suo percorso di crescita che gli impedisce di varcare la soglia dell’età adulta. Come il pipistrello imprigionato che sbatte contro le vetrate di una chiesa in una delle prime scene del film, Arturo è sospeso in una perenne adolescenza, mentre chi gli sta intorno continua a crescere. È incapace di affrontare i traumi della propria vita, metaforicamente rappresentati dal dito rotto che non si preoccupa di curare. Chiuso nelle proprie insicurezze, è incostante e sfuggente come Julie di The Worst Person in The World (Joachim Trier, 2021), ma porta su di sé anche un’inadeguatezza che ci ricorda Nanni Moretti, da cui eredita la struttura del cinema-diario e la passione per le abbuffate solitarie.

Sarà forse l’inizio della pandemia – quando “non esiste più un modo giusto di vivere la vita” – a permettere ad Arturo di uscire dalla sua immobilità. Tra speranze disattese e traumi rimossi, Martín Shanly riesce a costruire in maniera efficace il ritratto di una generazione grazie a un personaggio che, nella sua goffaggine e tenerezza, sa farci sorridere.

Articolo pubblicato su La Repubblica il 30/11/2023

Sara Longo

“ROMA BLUES” BY GIANLUCA MANZETTI

Article by Sara Longo


Translation by Lara Martelozzo

In the oneiric world of Al (Francesco Gheghi), the single most important thing is to make his bed every morning. This is because accomplishing the first task of the day will motivate him to achieve subsequent goals. Inspired by what Admiral McRaven said in his famous speech, Al adds that it is in a properly tucked-in bed that good dreams are born. Too bad there are no blankets to tuck into in the hot, suffocating Rome where he lives.

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“ROMA BLUES” DI GIANLUCA MANZETTI

Nell’onirico mondo di Al (Francesco Gheghi), la cosa più importante è farsi il letto ogni mattina. Questo perché realizzare il primo compito della giornata lo motiverà a raggiungere gli obiettivi successivi. Prendendo spunto da quanto disse l’Ammiraglio McRaven nel suo celebre discorso, Al aggiunge che è in un letto ben fatto che nascono bei sogni. Peccato che non ci siano coperte da rimboccare nella calda e asfissiante Roma in cui vive.

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“LOS COLONOS” BY FELIPE GÁLVEZ

Article by Sara Longo

Translation by Lara Martelozzo

“What happens to a country when an entire page of its history is erased?” This is the starting point of Felipe Gálvez’s debut feature film Los colonos (“The settlers”). A raw and refined film that, through the journey of three men charged by landowner Jose Menéndez to find a
“safe” – meaning “cleansed” of Indians – route to the shores of the Atlantic, brings attention to the genocide of the indigenous Selk’nam people perpetrated at the beginning of the 20th century for long obscured by Chile’s official history.

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“LOS COLONOS” DI FELIPE GÁLVEZ

«Che cosa accade a un Paese quando un’intera pagina della sua storia viene cancellata?». Da qui parte l’esordio nel lungometraggio di Felipe Gálvez Los colonos, crudo e raffinato film che attraverso il viaggio di tre uomini incaricati dal latifondista Jose Menéndez di trovare un percorso “sicuro” – cioè “ripulito” dagli indios – fino alle coste dell’Atlantico, porta l’attenzione sul genocidio degli indigeni Selk’nam perpetrato alle soglie del XX secolo e per lungo tempo oscurato dalla storia ufficiale del Cile.

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“URBAN MYTHS” DI WON-KI HONG

La 40° edizione del Torino Film Festival apre le porte alle nuove tendenze del cinema horror attraverso una sezione competitiva: “Crazies” – sentito omaggio all’omonimo film cult di George A. Romero – si pone come obiettivo l’esplorazione di nuovi linguaggi carichi di alta tensione. Il crazy che ha inaugurato la categoria parte dal principio, indagando le leggende che alimentano i nostri incubi quotidiani: attraverso dieci racconti a sé stanti, Urban Myths dà spazio a quelle storie di paura che ci raccontavamo da bambini e ci facevano subito sentire “grandi”. Ma libera anche quelle ingombranti presenze di cui, una volta cresciuti, non riusciamo a disfarci. I cortometraggi racchiusi all’interno del film indagano l’emarginazione della vita urbana in un’ottica terrificante: perseguitati dal proprio passato, i cittadini di queste città desolate non hanno altro confronto se non con i morti. 

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