“IL BUCO” DI MICHELANGELO FRAMMARTINO

Dopo Le quattro volte (2010) e Alberi (2013) Michelangelo Frammartino torna in sala con Il buco, vincitore del Gran Premio della Giuria al Festival del Cinema di Venezia. Il film ricostruisce l’esplorazione di una delle grotte più profonde al mondo, l’Abisso del Bifurto, avvenuta nel 1961 in Calabria, per mano di un gruppo di giovani speleologi partiti dal Nord. Frammartino presta la propria ricerca cinematografica alla ricostruzione storica in un film che è un’esperienza avvolgente e sensoriale.

Come nei due lungometraggi precedenti la regia di Frammartino è alimentata da una riflessione profonda sulle radici del linguaggio cinematografico: proseguendo il percorso di Le quattro volte e Alberi, il registra ragiona sulla natura antropocentrica del cinema, sradicando l’uomo dal centro dell’inquadratura e ricollocandolo in una geografia nuova. Frammartino rompe la scala dei piani convenzionali, rovesciando l’unità di proporzione data dalla figura umana. E’ il paesaggio, in tutte le sue forme, che definisce le misure e ricalibra il resto. I piani sequenza in campo lungo o lunghissimo sfondano la profondità lasciando allo sguardo il tempo di orientarsi; i tempi prolungati sono strutturali, necessari, permettono di immergersi nello spazio e “abitare” le inquadrature in tutta loro estensione. Frammartino lavora in funzione dello spettatore: l’esperienza della fruizione è concepita all’origine in maniera quasi complementare al gesto filmico del regista. Se in Alberi la tensione dialettica tra essere umano e natura trovava un esito simbolico e rituale (il metamorfismo delle maschere e il percorso verso la foresta che gradualmente portava “dentro” alla natura), ne Il buco la transizione è fisica e letterale: è data dall’immersione all’interno della grotta, nelle asperità naturali di un luogo buio e angusto che fagocita l’uomo e la macchina da presa, determinando persino ciò che possiamo o non possiamo vedere. A volte per distinguere qualcosa nell’oscurità bisogna attendere la luce delle lampade a gas posizionate sui caschi degli speleologi o la fiamma di un brandello di giornale incendiato e gettato nel vuoto per illuminare il percorso.

Dentro al “buco” (molto più che nelle foreste di Alberi) non esistono geometrie note che possano guidare il regista. La grotta è un’architettura irregolare e senza luce che provoca l’occhio, lo seduce e lo costringe a prospettive aliene. Frammartino le inventa, anche grazie a panoramiche sinuose che scavano nel buio insieme ai brandelli di giornale. Il regista riesce a raccontare una storia con una sceneggiatura fatta quasi esclusivamente di suoni e rumori. Non servono dialoghi o battute, gli scenari primordiali e incontaminati dell’altipiano che ospita la grotta sono come fogli vergini: basta il puro movimento umano a imprimere una traccia narrativa.

Francesco Dubini

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