“QUI RIDO IO” DI MARIO MARTONE

Nel 1904, Gabriele D’Annunzio mette in scena La figlia di Iorio. C’è grande attesa e sui giornali non si parla d’altro. Eppure, a una delle rappresentazioni svoltesi a Roma, c’è uno spettatore che, nel clima di grande tensione nella sala, riesce a stento a trattenere le risate. Questo individuo non si trova nelle file della platea, ma in alto, nei palchi, tra le autorità: il suo nome è Eduardo Scarpetta (Toni Servillo), il “re” della commedia napoletana di quegli anni, che in quel momento sta portando a Roma il suo Miseria e nobiltà. Ma l’idea di realizzare un parodia della tragedia di D’Annunzio diventa per lui irresistibile. Il “re” chiede così udienza al “vate”, che gli dà il suo benestare per realizzare l’opera, che si intitolerà Il figlio di Iorio. Tuttavia, le cose non vanno come previsto e Scarpetta, privo di un qualsiasi documento che attesti l’approvazione di D’Annunzio, si ritroverà sotto processo per plagio.

Inizia con una rappresentazione napoletana di Miseria e nobiltà, l’ultimo film di Mario Martone. Una scelta non casuale, probabilmente: quanta miseria, nella vita di Scarpetta; ma anche, per certi aspetti, anche tanta nobiltà. Un uomo che era riuscito a rendere il palcoscenico una casa per sé e per i propri (innumerevoli) affetti, e a rendere la propria casa, il proprio privato, un palcoscenico. Ambientando quasi tutta la pellicola in interni, Martone riesce abilmente a mostrare le alchimie tra Scarpetta e le sue varie “famiglie”, tutte perfettamente consce dell’esistenza di loro omologhi. Ed è probabilmente questa componente “famigliare” la parte migliore del film, corroborata da un montaggio dal ritmo rapido (non sempre presente negli ultimi lavori del regista napoletano) e da un registro (tragi)comico, al quale la scelta di utilizzare il napoletano per larga parte del copione ha fatto tutt’altro che danno. Ciò che appesantisce la pellicola è l’eccessiva attenzione alla diatriba con D’Annunzio, raccontata da Martone attraverso dialoghi didascalico-didattici (un problema che affliggeva anche la “trilogia italiana”) e una certa enfasi nei toni, a tratti stucchevole, quando lo sguardo si concentra sugli eredi al trono, i tre fratelli De Filippo.

Nondimeno, gli attori, a partire da un vulcanico Toni Servillo, riescono a rispondere all’affondo della scrittura con interpretazioni adeguate al registro del film, muovendosi con naturalezza tra scenografie e costumi molto curati – a riprova dell’abilità di Martone di cimentarsi con efficacia nel dramma storico. Un dramma, in questo caso, che parla soprattutto di padri: da amare, da odiare, da uccidere. Tutti i personaggi nel film ne hanno uno, incluso Scarpetta, figlio patricida del Pulcinella della Commedia dell’Arte, e futura (inconsapevole) vittima. Che, nell’ignoranza del domani, si fa una grande risata.

Alessandro Pomati

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