“Somos malas, podemos ser peores” Siamo cattive, possiamo esserlo di più.
Le note di una tromba nel silenzio di una sala di registrazione sembrano presagire il boato di un terremoto. Così si apre il documentario di Dora Garcia, quasi celando – temporaneamente – la dirompenza dell’argomento che tratterà. È la musica, infatti, il germe di quest’opera, il cui titolo è la traduzione spagnola di “Wenn ich mir was wünschen dürfte”, una canzone del compositore tedesco Friedrich Holländer… se potessi desiderare qualcosa. Le delicate sessioni di registrazione si alternano alle intense immagini delle lotte del movimento femminista che da cinque anni travolgono Città del Messico. La delusione, la sofferenza inascoltata delle donne, si protraggono da così a lungo che la tristezza, la vulnerabilità derivata dall’abbandono, si sono trasformate in scudo e spada allo stesso tempo. Questo è ciò che la canzone comunica, riecheggiando per l’intera durata del film.
Il Messico, dilaniato dai femminicidi e dalle continue scomparse, è il centro di una piaga globale, di un’emergenza sociale che deve essere narrata come il prodotto di una cultura secolare, non come il risultato di pochi casi isolati. “Ogni minuto di ogni settimana, ci rapiscono le amiche, ci uccidono le sorelle” cantano le donne di Città del Messico, esibendo i loro fazzoletti verdi in supporto dell’aborto legale o i cartelloni variopinti che simboleggiano, uno ad uno, i diritti che rivendicano. La marcia è incontenibile, pervade la città fino a risolversi nella distruzione: l’unica arma rimasta a queste donne per farsi ascoltare. È nell’unione che le singole vulnerabilità si intrecciano in una rete di difesa che permette a donne e bambine di riprendersi la strada, un luogo così ordinario eppure quasi proibito per colei che cammina sola. È proprio alle donne sole che si rivolgono i canti: “Non sei sola”, “Se toccano una, rispondiamo tutte”, “Io sì ti credo”.
Dora Garcia costruisce abilmente la narrazione su due piani: da una parte quello della musica idilliaca di La Bruja de Texcoco, la cui identità è una celebrazione assoluta della femminilità, dall’altra quello dei suoni irruenti della lotta, come le voci sfinite che riempiono le strade, e degli sguardi intensi, dei corpi liberi di occupare spazio e di distruggere, in un modo non si addice a delle signorine. La frustrazione è palpabile, i canti delle donne sembrano sfondare lo schermo eppure è come vederle gridare senza volume, dacché nessuno le ascolta.
Il risultato è un inno sussurrato e urlato allo stesso tempo, un inno ingombrante e rumoroso, un inno che grida semplicemente il diritto a esistere come attori sociali, a esistere in quanto donne, per tutte coloro che non lo possono più fare e per coloro che verranno. Non una di meno. “Sono Claudia, sono Esther e sono Teresa. Sono Ingrid, sono Fabiola e sono Valeria”.
Alice Ferro