C’è qualcosa di insondabile in America Latina, un film che stupisce per la sua capacità di depistare lo spettatore prendendolo continuamente in contropiede, facendolo sentire sballottato e smarrito come il protagonista di cui racconta. Il nuovo film dei fratelli D’Innocenzo è un thriller psicologico a tinte horror, sorretto da un grande Elio Germano, che ri-conferma il talento dei due cineasti.
Massimo Sisti è un uomo dalla vita in apparenza perfetta: abita in una villa in stile sogno americano, ha un ottimo lavoro (dentista), una moglie e due figlie che paiono angeli del focolare. Ma un giorno qualcosa va in tilt, una lampadina si fulmina e Massimo deve scendere in cantina per prenderne una nuova. Nel sotterraneo trova una sorpresa a dir poco sconcertante: una bambina, legata e imbavagliata, immersa in un mare di rifiuti e sporcizia.
Questo è solo l’inizio di un cortocircuito che tenta di mettere in luce la dicotomia tra dolcezza e brutalità, attraverso una vivisezione dell’animo maschile, attenta e minuziosa nell’indagare le pieghe in cui ristagnano le ambiguità e le contraddizioni che portano l’uomo a una condizione d’impasse. In un’inquadratura emblematica, Massimo, poco dopo aver scoperto cosa cela l’interrato, si affaccia alla vetrata della sua camera da letto. Il riflesso dell’esterno si staglia sulla superficie lucida e seziona il personaggio impressionandone le inquietudini: la fronte è segnata dalle fronde degli alberi, gli occhi sono incorniciati dalle linee di una piscina piena d’acqua verdastra e, pian piano che la ripresa si abbassa, i rami contorti di un albero paiono stringere in una morsa lo stomaco del protagonista. La macchina da presa è posta all’esterno dell’abitazione, ma il sonoro permette di sentire i respiri, il deglutire di Massimo e il dialogo tra lui e la moglie, come se lo spettatore fosse all’interno della camera da letto.
La relazione tra interno ed esterno è centrale per il quadro grottesco che i registi cercano di delineare, in cui la fragilità del protagonista è schermata da una tenerezza così ostentata da diventare nauseante. A un certo punto nel film si assiste a una colazione a base di dolciumi, con una crostata fumante che sembra uscita da una striscia a fumetti, avvolta da un’aura fiabesca e sinistra allo stesso tempo, perché tutto quello che c’è sul tavolo è laccato da una patina così zuccherosa da sembrare immangiabile. Massimo e le sue tre donne di casa s’ingozzano e la scena si chiude con il protagonista che vomita la pietanza, simbolo di un idillio familiare in realtà inesistente.
Elio Germano dà corpo in maniera efficace a un uomo terrorizzato dalle sue debolezze, ritraendo una mascolinità tossica, che tenta di sembrare forte corazzandosi nell’illusione della realizzazione borghese, per cui le donne, quasi divinizzate, cercano di sopperire a questa “mancanza di spina dorsale” accudendolo e rassicurandolo. Una mancanza sottolineata dai personaggi maschili – il padre su tutti – che circondano Massimo, soggetto a continue stoccate che minano l’identità maschile forte con cui vorrebbe far combaciare la sua silhouette. Ed è proprio nel farsi cullare dalle donne, in questo loro dovere di assistenza, che Massimo, seppur passivamente, fa emergere un desiderio di rivalsa maschile a dir poco misogino.
Il film assomiglia a un disegno appena abbozzato, come se un bambino lo avesse iniziato per poi lasciarlo incompiuto, in cui si scorgono le tappe di un viaggio al termine della dissociazione tra i nebulosi paesaggi cerebrali del suo protagonista. Fabio e Damiano D’Innocenzo tratteggiano un percorso in cui è impossibile trovare una meta, e quando si ha l’impressione di averla raggiunta c’è sempre qualcosa rimasto in sospeso, che rimanda allo schizzo, a qualcosa , a uno stato di aporia. Impregnato di un’atmosfera noise e disturbante, complice la suggestiva colonna sonora dei Verdena, America Latina è un film quasi muto che, in alcune immagini, riverbera del romanticismo e dell’irrequietezza di Murnau.
Luca Delpiano