Finalmente Carlos Vermut è arrivato in Italia. A porre fine alla colpevole miopia nei confronti del suo cinema, riservatagli dalla distribuzione e dai festival italiani, ci ha pensato il Torino Film Festival. Fiore all’occhiello di questa quarantesima edizione, la personale dedicatagli conferma la grande capacità del festival torinese di far scoprire al pubblico italiano cineasti pressoché sconosciuti ma sicuramente meritevoli di mostrare il proprio lavoro a una platea più ampia possibile. Nel caso del cinema del giovane regista spagnolo vale anche l’opposto: non solo egli è sicuramente degno di essere scoperto, ma il pubblico stesso merita di assaporare le sue opere, in quanto rari esempi, nel panorama odierno, di film capaci di coinvolgere gli spettatori, senza però trascurare uno studio attento e approfondito della società odierna.
Il matrimonio tra la componente ludica e quella riflessiva avviene, nel cinema di Vermut, principalmente grazie alla sua fascinazione, eterogenea e transmediale, per la cultura pop: non solo strumento necessario ad aumentare l’adesione e la partecipazione dello spettatore, ma vera e propria ossessione – estetica e teorica – che attraversa tutto il suo cinema. La manifestazione dell’elemento pop prende sempre forme diverse, in base allo specifico media scelto e all’evidenza (o meno) di ciascuna di queste apparizioni. Se nel suo primo lungometraggio Diamond Flash (2011) i comics e i supereroi che li animano rappresentano il fulcro dell’opera stessa, in quella successiva, Magical Girl (2014), i riferimenti pop, appartenenti in questo caso al mondo dei manga e degli anime giapponesi, sono meno evidenti e più puramente simbolici. I suoi ultimi due film presentano invece personaggi che lavorano nel mondo della produzione artistica: Quién te cantará (2018) è infatti la storia di una diva della musica modellata attorno alla figura di Mina e in Mantícora (2022) il protagonista è un animatore digitale di videogiochi.
Fumettistica, sia occidentale che orientale, musica e arte videoludica rispondono ugualmente alla necessità primaria di Vermut: mostrare ciò che giace nascosto all’ombra dello sfarzo e della luminosità della cultura pop. La sua natura luccicante e incoraggiante viene giustapposta a quella, ben più oscura, celata nell’animo umano, creando un effetto di “irradiazione” tipico della pittura divisionista. In quel caso, nel contatto tra due superfici colorate, quella relativamente più luminosa tende ad accrescere la sua luminosità lungo le zone di frontiera, mentre l’altra, per contrasto, si inscurisce, dando risalto alle sagome delle figure. Nel cinema di Vermut il mondo del pop mantiene, o addirittura accresce, la sua aura confortante e incoraggiante, ma con il solo scopo di metter in risalto la sua controparte oscura, la natura umana. Questi riferimenti, disseminati nella sua opera, non sono quindi strumenti escapistici, ma al contrario elementi realistici e connaturati all’interno dei problemi morali ed etici della nostra società.
La coesistenza tra luce e oscurità è evidente sin dalla sequenza di apertura del suo primo film, Diamond Flash. Una bambina assiste, in una stanza di ospedale, al colloquio tra un assistente sociale e la madre. Mentre egli sostiene ripetutamente che le sue ferite contundenti non siano state causate dal marito ma da un’accidentale caduta, la bambina legge un fumetto e successivamente discute con la madre della natura dei supereroi: esseri umani dai poteri eccezionali, ma soprattutto dalla morale inattaccabile, capaci di salvare chiunque senza essere costretti a uccidere a loro volta, senza quindi prevaricare il confine che li separa dalla loro nemesi. Alla luce di quanto avviene durante il corso di questo e degli altri film di Vermut, questa scena iniziale esplicita l’intento di focalizzarsi sulla placida e dogmatica sicurezza del sogno e dell’illusione insita nella nostra realtà, alla ricerca delle zone d’ombra, altrettanto – se non più – reali.
Se l’idea di addentrarsi nel suo cinema, anche da fuori, risulta quantomeno allettante, essa deve necessariamente scontrarsi con una costruzione elaborata e quasi cervellotica delle sue opere, che rende quasi impossibile descriverle, anche solo in maniera abbozzata. Ciò che è invece perfettamente plausibile è parlare del suo, alquanto originale, approccio alla scrittura cinematografica e alla regia. Esso come detto si nutre di una sconfinata passione per il cinema e per la cultura pop, così intensa da portare lo stesso Vermut ad appropriarsi, per descrivere il suo stile, dell’aggettivo “cinedionisiaco”, utilizzato per la prima volta dal critico, esperto di fumetti e di sottoculture di ogni genere Jordi Costa, in riferimento alle opere di Álex de la Iglesia. Un cinema che nasce dal piacere e che si sottomette a esso, riflettendosi nell’immensa creatività e sregolatezza dei suoi soggetti e delle sue storie, sempre spiazzanti e sconcertanti, sregolate ma, incredibilmente, ancorate alla realtà. Se questo binomio, apparentemente ossimorico, tra eccesso quasi edonistico e rispetto delle problematiche della contemporaneità, riesce a coesistere nelle opere di Vermut, è sicuramente grazie al suo stile registico, al suo rigore tecnico. Dietro la macchina da presa cerca di inquadrare quanto più rigidamente e inflessibilmente il mondo che lui ha creato, reale ma al contempo contaminato dall’enfatizzazione estatica per tutto ciò che viene considerato luminoso e confortante. La cornice serve a Vermut “per saldare i conti”, per compattare ciò che vi si trova all’interno, per creare un costante dialogo tra gli elementi – spesso opposti – che vivono in quel rettangolo che si fa sguardo, del regista e, di conseguenza, del pubblico. Ciò non vuol dire che il mondo di Vermut esista solo dentro i ristretti limiti del quadro, che non sia abbastanza profondo e vasto da percepire un fuori campo. È esattamente il contrario. E la prova sta proprio in quella scena del suo primo film di cui abbiamo già parlato. Vermut, in quel momento, opera una scelta raramente riscontrabile in un cineasta appena trentenne: taglia, esclude dall’inquadratura, nonostante stesse discutendo con la figlia, il volto tumefatto della madre. Il campo-controcampo mutilato di quel dialogo rende intatto il sogno – questo sì escapistico –, fatto di supereroi più che di giustizieri, nel quale si rifugia la figlia, e in quel momento, vigliaccamente, anche noi. È proprio questa l’illusione che cerca di svelare, film dopo film, l’autore spagnolo. Non rimane quindi che sperare che questa personale dedicatagli dal Torino Film Festival sortisca l’effetto desiderato, far diventare popolare il cinema incredibilmente pop di Carlos Vermut.
Enrico Nicolosi