La tematica della maternità è stata e viene tutt’oggi spesso affrontata nel cinema attraverso le più diverse prospettive e sensibilità. L’approccio della regista anglo-americana Savanah Leaf si distingue nel panorama contemporaneo per una freschezza e una delicatezza unica, che rendono il suo Earth Mama – basato sul cortometraggio documentario The Heart Still Hums co-diretto insieme a Taylor Russell – un’opera prima dalla potenza straordinaria.
La vicenda di Gia (Tia Nomore), seguita da vicino, testimonia le difficoltà che, in molti casi, rendono la maternità un’esperienza drammatica: il fatto che la protagonista sia una donna nera che vive in condizioni di povertà e marginalità sociale permette di rappresentare una realtà specifica e sfaccettata, ma taciuta e sconosciuta ai più. In particolare, la regista fa leva sulla disumanità del sistema di affidamento e assistenza all’infanzia statunitense nei confronti delle donne nere, il cui fallimento come donne e madri è imputato quasi di regola, se non auspicato.
Intorno a Gia si sviluppa così un ensemble di donne che intrecciano le proprie vite con la sua, le quali incarnano differenti tipologie di maternità o femminilità, tutte accomunate dalla stessa disperata necessità di trovare posto in un mondo da cui si trovano del tutto tagliate fuori.
La forte presenza femminile dietro Earth Mama (Savanah Leaf è regista, sceneggiatrice e produttrice del film) ha permesso di plasmare un racconto in cui il giudizio sul tema trattato è completamente assente. La protagonista cammina, respira, sceglie, vive davanti agli occhi degli spettatori in tutta la sua umanità. Ed ecco che la rappresentazione di una donna che affronta la maternità appare genuina come raramente accade: c’è spazio per la paura e per gli sbagli, per la fragilità e per l’incertezza.
La narrazione si muove parallelamente su due piani. In un primo momento, la vita di Gia viene quasi mostrata dall’esterno: spesso infatti la sua figura riempie solo una piccola parte dell’inquadratura davanti ad uno sfondo chiaro e pulito a rappresentare il suo isolamento. Successivamente, si assiste alla progressiva messa a nudo del suo dolore, attraverso una serie di sequenze in cui il suo volto è ripreso a distanza talmente ravvicinata da coglierne ogni microespressione.
La colonna sonora profondamente evocativa, le inquadrature statiche e il ritmo lento fanno sì che, seppur delicatamente, sul film si accumuli un percettibile strato d’ansia e disagio. I momenti di respiro prendono la forma di sequenze oniriche in cui la storia di Gia viene paradossalmente spogliata di tutto il superfluo e ricondotta al principio di tutto: l’immaginario mitico-naturale dell’oceano e della foresta rappresentano qui la primordialità e la potenza innata dei sentimenti materni.
Giorgia Andrea Bergamasco