Scorrono i titoli di coda di Birth – presentato in concorso alla 41° edizione del TFF – e il rumore dei tasti del computer non smettono di fare rumore, non conoscono attimi di pausa. Jay (Han Hae-in) è una scrittrice giovane e promettente, ricca di talento, indubbiamente ambiziosa, per nulla timorosa e anzi stimolata dalla carriera che ha deciso di intraprendere. Non può e non sa fare altro. Accanto a lei, il compagno Geonwoo (Lee Han-ju), insegnante di inglese in un istituto privato, sembra accontentarsi di vivere all’ombra della sua fidanzata, aiutandola come meglio può e rinunciando alla sua felicità individuale. Una storia d’amore impari dunque, il cui equilibrio, solo apparentemente stabile, in realtà profondamente malsano, viene messo in discussione nel momento esatto in cui lei scopre di essere incinta, nonostante l’attenzione riposta nell’utilizzo di contraccettivi.
Questa gravidanza inaspettata ha il sapore di un infelice scherzo del destino: se i due protagonisti la accolgono come un imprevedibile ostacolo, la regista e sceneggiatrice Yoo Ji-young, invece, la indaga attraverso una pulizia formale e una limpidezza stilistica che prende vita sin dagli inziali establishing shot casalinghi che si susseguono durante il prologo (della durata inusuale di ben 40 minuti). Le inquadrature studiate nel minimo dettaglio, infatti, frappongono tra i due protagonisti oggetti quotidiani, come tazze, bicchieri o bottiglie di vino semi-vuote, che si stagliano quali puntuali metafore della difficoltà che saranno costretti ad affrontare.
«È difficile identificarsi con la protagonista perché troppo egoista» dice l’editrice a Jay dopo aver letto una bozza del suo terzo romanzo, anch’esso intitolato Birth. È evidente il rimando intradiegetico: ad essere egoista non è la protagonista del libro, ma Jay stessa, che pur di perseguire il suo sogno personale mette a rischio, volontariamente, la sua vita relazionale. Non è egoismo, è dignità individuale, sembra urlare a squarciagola la regista, che non solo ha vissuto in prima persona una vicenda analoga – ed è lodevole la distanza che riesce a mantenere dal suo stesso racconto, senza scadere in banali moralismi o retorica di alcun genere -, ma in quanto donna è stata costretta a scontrarsi con una società coreana profondamente maschilista, esattamente come la nostra protagonista.
Sono due gli elementi che riassumono perfettamente l’opera razionale ed emozionante al contempo. Da un lato una matita appuntita, simbolo per eccellenza della scrittura, che piano piano si accorcia non a causa della sua funzione naturale (scrivere appunto), ma poiché Geonwoo – frustrato dai suoi insuccessi lavorativi e dall’estremo egocentrismo della compagna – la schiaccia contro un tavolo sino a romperla. Dall’altro, un cubo di Rubik nero, irrisolvibile e continuamente in movimento, che non smette di girare nelle mani di Jay, quasi a esorcizzare i momenti di ansia causati dalla necessità di affrontare un individualismo tutt’altro che esagerato, ma semplicemente umano. Ecco le due anime che s’intrecciano nel film, che sognano e litigano, piangono e infine si lasciano, regalando agli spettatori un’opera in grado di dipingere con oggettività e sentimento l’amore e l’arte di vivere, le loro capacità e i loro limiti.
Davide Gravina